Penale

Ricorso per cassazione, l’intento è scoraggiare quelli “inutili

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di Renato Bricchetti

Tra le novità in materia di sentenza di applicazione concordata della pena c'è il ricorso per cassazione che diventa più mirato ed esclusivo.

Ricorso per cassazione - La nuova legge (articolo 1, comma 50) inserisce nell'articolo 448 il comma 2-bis.
Pubblico ministero e imputato – si legge nel nuovo comma - possono ricorrere per cassazione solo per i) vizi dell'espressione della volontà, ii) difetto di correlazione tra accordo e sentenza, iii) erronea qualificazione del fatto, iv) illegalità della pena o della misura di sicurezza.
La nuova disposizione – afferma l'articolo 1, comma 51 - non si applica nei procedimenti nei quali la richiesta di patteggiamento è stata presentata anteriormente alla data di entrata in vigore della legge, vale a dire al 3 agosto 2017.
Il legislatore ha ritenuto che il modulo consensuale di definizione del processo non meritasse l'attuale, troppo ampia, ricorribilità per cassazione, constatato, tra l'altro, l'esito largamente prevalente di inammissibilità dei relativi ricorsi, con inutile dispendio di tempi e costi organizzativi.
Ha così ritenuto di limitare la ricorribilità ai soli casi in cui l'accordo non si sia formato legittimamente o non si sia tradotto fedelmente nella sentenza, ovvero il suo contenuto presenti profili di illegalità per la qualificazione giuridica del fatto, per la pena o per la misura di sicurezza, applicata od omessa.

La proposta di riforma è, nelle intenzioni, diretta a scoraggiare i ricorsi meramente defatigatori.
Il legislatore, anche in tal caso, altro non ha fatto che codificare i pochi casi in cui il ricorso per cassazione contro la sentenza di patteggiamento veniva accolto.
Casi in cui la Corte pronuncia l'annullamento senza rinvio della sentenza, con trasmissione degli atti al giudice di merito per un nuovo giudizio, nel quale le parti devono, se lo ritengono, rivalutare i termini dell'accordo e l'interesse a un nuovo patteggiamento determinativo di una pena conforme alle prescrizioni di legge.
Tipici annullamenti senza rinvio sono quelli determinati da un accordo che esprime una pena illegale (Cassazione, sezioni Unite, 27 maggio 2010 n. 35738, Calibé, in motivazione) ovvero un errore nella qualificazione giuridica del fatto (Cassazione, sezioni Unite, 28 marzo 2001 n. 22902, Tiezzi, RV 218874) o ancora una misura di sicurezza “al di fuori dei presupposti di legge” (in tal caso l'annullamento senza rinvio è limitato a tale erronea statuizione: Cassazione V, 16 febbraio 2016 n. 11934, Barbetta. RV 266429).

È disposto invece con rinvio l'annullamento della sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte civile in questo caso con rinvio al giudice competente per valore in grado d'appello, dovendosi discutere in detta sede solo sul quantum (Cassazione, sezioni Unite 14 luglio 2011 n. 40288, Tizzi, RV 250680); analogamente, non inficia l'accordo ma la sentenza - e quindi determina annullamento con rinvio - la mancata applicazione di sanzioni amministrative che conseguono di diritto al reato (v. ex plurimis Cassazione II, 26 novembre 2013 n. 49461, Carguello, RV 257871).
L'annullamento è, inoltre, disposto con rinvio nel caso in cui il giudice abbia adottato un provvedimento di contenuto diverso dall'accordo: in questo caso resta salvo l'accordo intervenuto tra le parti.

L'illegalità della pena - Il caso più ricorrente è sempre stato quello della illegalità della pena.

Nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, l'accordo si forma non tanto sulle operazioni con le quali essa viene determinata, bensì sul risultato finale delle operazioni stesse.
Ne deriva che gli eventuali errori commessi nel determinare la sanzione concordata e applicata dal giudice non assumono – come si ribadirà tra breve - alcuna rilevanza, purché il risultato finale non si traduca in una pena illegale. E il principio di legalità della pena è rispettato quando a determinare la pena concorre non solo la norma che contiene la comminatoria tra un minimo e un massimo determinati per la fattispecie base o circostanziata, ma anche quando concorrono le norme, previste nel Libro I del Codice penale, che contengono meccanismi speciali per il computo della pena, come, ad esempio, il cumulo giuridico.

Tipo, contenuto e misura della pena devono trovare la loro fonte nella legge.
La riserva di legge in materia di pene ha a oggetto, per quanto interessa in questa sede, anche le pene accessorie, le sanzioni sostitutive delle pene detentive (v. articoli 55, 56 e 57, secondo comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689, articolo 16 del Dlgs 25 luglio 1998 n. 286, ecc). e gli effetti penali della condanna.

Qualche esempio: è illegale la pena dell'arresto che sia stata determinata in misura inferiore al minimo assoluto di cinque giorni contemplato dall'articolo 25, primo comma, del Cp, pena che non può essere rettificata dalla Corte di cassazione ai sensi dell'articolo 619 del Cpp, atteso che l'accordo si è formato con riguardo a una specifica quantità di pena e non può presumersi un analogo consenso delle parti in riferimento a una pena di diversa entità.
Pena illegale si ha, poi, ad esempio, quando il Tribunale applica la pena dell'arresto a un reato che la legge configura come delitto o viceversa.
Così come si ha pena illegale quando la pena–base sia fissata in misura inferiore al minimo edittale previsto dalla norma incriminatrice.
Ancora: è illegale la pena quando per un reato appartenente alla competenza del Giudice di pace si applichino pene diverse da quella previste dall'articolo 52 del Dlgs n. 274 del 2000.

Erronea qualificazione giuridica del fatto - Altro caso ricorrente, ora codificato, è quello concernente l'erronea qualificazione giuridica del fatto.
Quando con il ricorso per cassazione sia contestata la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, la Corte è tenuta a verificare se il fatto, così come accertato e valutato dal giudice di merito e dalla sentenza che ha recepito l'accordo delle parti, sia riconducibile al paradigma della fattispecie incriminatrice ritenuta nella sentenza (Cassazione I, 18 dicembre 1991, Van Deuren, RV 189892, che precisa che il giudice di legittimità non può, peraltro, rivalutare o valutare diversamente il fatto storico, risultante dagli atti e dall'accordo delle parti).
Se così non è, la decisione impugnata va annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti per il corso ulteriore al giudice che l'ha pronunciata.
È necessario, naturalmente, che l'errore emerga ictu oculi dalla sentenza impugnata dovendo escludersi l'ipotesi in cui esso sia individuabile soltanto per mezzo di una specifica attività di verifica nel merito degli atti del procedimento.
In altre parole, rilevano soltanto i casi di errore manifesto, di manifesta incongruenza, ossia i casi in cui sussiste l'eventualità che l'accordo sulla pena si trasformi in un accordo sui reati (Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 19 gennaio 2000 n. 5, Neri, RV 215825 e, tra le altre, Cassazione VII, 10 settembre 2015 n. 39600, Casarin, RV 264766, chiara nell'affermare che la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l'erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza è limitata ai casi in cui tale qualificazione risulti, con indiscussa immediatezza, palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione, dovendo in particolare escludersi l'ammissibilità dell'impugnazione che richiami, quale necessario passaggio logico del motivo di ricorso, aspetti in fatto e probatori che non risultino con immediatezza dalla contestazione).
Nell'ambito della verifica della corretta qualificazione del fatto rientra anche il controllo sulle circostanze utilizzate nel calcolo della pena e nel giudizio di comparazione (Corte di cassazione, sezione II, sentenza 15 dicembre 2010 n. 36/11, Viola, RV 249488, fattispecie nella quale era stata riconosciuta, su richiesta delle parti, l'equivalenza tra le attenuanti generiche e la “contestata recidiva”, pur se quest'ultima non era stata, in realtà, contestata, risultando l'imputato incensurato), purché non attenga a profili meramente valutativi sulla loro sussistenza ovvero sulla misura dell'aumento o della diminuzione di pena, che riguardano invece l'intangibilità dell'accordo.

Difetto di correlazione tra richiesta e sentenza - Altro caso di ricorso, non nuovo nell'esperienza pratica, è quello relativo al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, caso che ricorre, ad esempio, quando la sentenza di patteggiamento applichi la pena per un'imputazione sostanzialmente diversa, con riguardo alla condotta o alle circostanze, da quella originariamente formulata dal pubblico ministero.

Espressione della volontà dell'imputato - Vi è poi il vizio relativo alla «espressione della volontà dell'imputato».
Caso paradigmatico quello in cui, contumace o assente l'imputato, la richiesta di patteggiamento venga presentata dal sostituto processuale del difensore, a ciò non legittimato perché la procura speciale non è stato conferita a lui ma al difensore sostituito (conseguenza l'illegittimità dell'accordo intercorso con il pubblico ministero e della sentenza che lo ha ratificato: cfr., ex plurimis, Cassazione I, 4 novembre 2009 n. 43240, Barbini, RV 245081).
È opportuno ricordare, infine, che l'articolo 446, comma 5, del Cpp prevede l'opportunità per il giudice di disporre la comparizione dell'imputato per verificare la volontarietà della richiesta o del consenso.

L'illegalità della misura di sicurezza - Resta il caso della illegalità della misura di sicurezza. Caso, in verità, piuttosto raro nella pratica.
È la legge che deve prevedere i casi in cui il giudice, previo accertamento della pericolosità sociale dell'agente, può applicare misure di sicurezza.
Con riguardo alla tipologia, la legge deve precisare a quale tra le misure di sicurezza personali indicate nell'articolo 215 del Cp può essere sottoposta la persona socialmente pericolosa.
Il giudice non può applicare misure di sicurezza non previste dalla legge, né può applicare misure previste dalla legge, ma diverse nel contenuto rispetto a quanto disciplinato dal legislatore in ordine a ogni specie di misura.
Il principio di legalità è, ad esempio, violato se si applica la misura di sicurezza della libertà vigilata - in sede di unificazione ex articolo 209, primo comma, del Cp - aggiungendovi il divieto di soggiorno che, quale diversa e autonoma figura disciplinata dall'articolo 233, non può rientrare tra le prescrizioni, tese a evitare le occasioni di nuovi reati, imposte a chi è in stato di libertà vigilata secondo l'articolo 228.
Qualche altro esempio: l'omessa applicazione di misure di sicurezza personali nel patteggiamento “allargato” o, per contro, l'applicazione delle stesse nel patteggiamento ordinario; l'applicazione della confisca “allargata” in relazione a un reato non previsto dall'articolo 12-sexies del Dl 8 giugno 1992 n. 306, convertito, con modifiche, dalla legge 7 agosto 1992 n. 356.

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