Responsabilità

Sfruttamento del bracciante agricolo, emarginazione e insulti a sfondo razziale: sì al risarcimento del danno non patrimoniale

Condotte di emarginazione lavorativa accompagnate da insulti, anche a sfondo razziale, determinano l’insorgenza in capo al prestatore di lavoro del diritto al risarcimento del danno alla dignità personale, senza necessità di ulteriori sforzi allegatori (Trib. Tivoli, Sez. Lavoro, Sentenza 8 ottobre 2024, n. 1442)

di Alessandro D'Achille*

La massima

Il perpetrarsi di comportamenti offensivi della persona, consistenti in condotte di emarginazione lavorativa accompagnate da insulti, anche a sfondo razziale, determina l’insorgenza in capo al prestatore di lavoro del diritto, nella misura ritenuta congrua rispetto alla fattispecie di interesse e determinata in via equitativa, al risarcimento del danno alla dignità personale, senza necessità di ulteriori sforzi allegatori quanto ai profili pregiudizievoli di tali condotte e a prescindere dalla sussistenza di danni ulteriori [massima non ufficiale].

Il quadro giuridico e normativo

Il rapporto di lavoro si caratterizza, sul piano giuridico, dalla formale pariteticità delle parti che, in quanto soggetti liberi ed uguali, operano sullo stesso piano e, dal punto di vista economico, dalla posizione di sostanziale inferiorità del prestatore di lavoro rispetto alla parte datoriale. Ciò, non soltanto in ragione dell’elevato tasso di disoccupazione che caratterizza il mercato del lavoro, ma anche in forza dello stato di soggezione in cui versa il lavoratore rispetto al potere di direzione e di organizzazione del datore di lavoro. Pertanto, le norme che regolamentano il diritto del lavoro hanno come conclamata finalità quella di tutelare il lavoratore, assicurandolo nei propri rapporti con il datore e garantendone l’integrità psico-fisica.

Il rapporto di lavoro rappresenta un momento centrale nella esplicazione della personalità e nella realizzazione di quei valori di dignità e libertà che dovrebbero definire e caratterizzare la vita di ogni essere umano. In quanto volto a tutelare i soggetti maggiormente bisognosi di protezione, il diritto al lavoro viene quindi comunemente annoverato tra i cc.dd. ‘‘diritti sociali’’.

La globalizzazione ha determinato il sorgere di nuove tipologie di lavoro; la fusione dei mercati a livello internazionale a tutt’oggi condiziona il mondo del lavoro, sovente incidendo negativamente sulle attività delle piccole realtà locali, dei piccoli mercati e delle zone rurali dei paesi meno progrediti; l’evoluzione tecnologica, inoltre, ha ridotto notevolmente la domanda nel mondo del lavoro, specie in relazione alle cc.dd. attività a ‘‘bassa competenza’’.

Ed ancora - e per quanto più interessa in relazione alla sentenza in oggetto -, i flussi migratori - a volte di interi popoli - dai paesi disagiati incrementano lo sfruttamento di manodopera verso tutti quei lavori considerati “di fatica”, che sempre più raramente vengono intrapresi dai lavoratori locali, con l’effetto di aumentare il lavoro in nero e sottopagato che, lungi dal fornire una qualche forma di tutela alle persone, le mantiene in uno stato di costante disagio, senza favorirne l’integrazione.

Su di un piano normativo, nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il datore di lavoro non solo è contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l’integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente - ai sensi dell’art. 2087 c.c. -, ma deve altresì rispettare il generale obbligo di neminem laedere e non deve tenere comportamenti che possano cagionare danni di natura non patrimoniale, configurabili ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti diritti.

Proprio il menzionato articolo 2087 c.c. - a tenore del quale: ‘‘L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’’ - costituisce una norma ‘‘aperta’’ e strumento sanzionatorio atto a punire tutte quelle condotte del datore di lavoro capaci di ledere la personalità e la dignità del lavoratore. Trattasi, quella testé citata, di una norma di cui da tempo è stata fornita un’interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto dei beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, all’integrità psico-fisica, l’identità personale, la dignità umana, i diritti inviolabili della persona, la partecipazione alla vita sociale e politica, presidiati dagli artt. 2, 32, 35, co. II e 41 co. II, della Costituzione, e che fonda la pretesa risarcitoria del lavoratore in caso di loro compromissione.

In sintonia con una lettura complessiva di tutela del lavoratore prevista dal nostro ordinamento già nella sua norma fondamentale, si colloca il consolidato orientamento giurisprudenziale - riconducibile alla pronuncia della Suprema Corte n. 5491/2000 - a cui la giurisprudenza successiva ha dato continuità - con cui è stato chiarito come il contenuto dell’obbligo ex art. 2087 c.c. ‘‘non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica di prevenzione, riguardando altresì il divieto, per il datore di lavoro, di porre in essere, nell’ambito aziendale, comportamenti che siano lesivi del diritto all’integrità psicofisica del lavoratore’’. 

Peraltro, non deve dimenticarsi che sempre la Corte di Cassazione ha costantemente riconosciuto - a partire dalla sentenza n. 2569/2001 - la tutela sia contrattuale che extracontrattuale in caso di diritti attinenti all’integrità psico-fisica del lavoratore e, più in generale, agli interessi esistenziali. Dal riconoscimento, quindi, della natura sia contrattuale che extracontrattuale del diritto al risarcimento di tale danno, derivante direttamente dall’obbligo per il datore di lavoro ex art. 2087 c.c. di tutelare non solo sotto il profilo antinfortunistico il lavoratore ma anche la sua integrità psico-fisica - ciò in un’ottica complessiva desumibile dal combinato disposto degli articoli 32 Costituzione e 2043 codice civile - discende, quale logico corollario, che in termini di ripartizione dell’onere probatorio potrà applicarsi il criterio più favorevole al prestatore di lavoro, che è sicuramente quello che deriva dalla responsabilità contrattuale.

Spetterà, dunque, al datore di lavoro, se vuole evitare profili di responsabilità ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno all’integrità psico-fisica, dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie a tutelarla, mentre incomberà sul lavoratore, al contrario, come proprio onere probatorio dimostrare la sussistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e il comportamento del datore di lavoro.

Per ciò che concerne l’accertamento del tipo di responsabilità azionato, le Sezioni Unite della Corte di legittimità hanno chiarito, con sentenza n. 4850 del 27.02.2013, come lo stesso prescinda dalle qualificazioni operate dall’attore, anche attraverso il richiamo strumentale a singole norme di legge, quali l’art. 2087 o l’art. 2043 c.c., mentre assume rilievo decisivo la verifica dei tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito e, quindi, l’accertamento se il fatto denunciato violi il generale divieto di neminem laedere e riguardi, quindi, condotte del datore di lavoro la cui idoneità lesiva possa esplicarsi indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini come nei confronti dei propri dipendenti, costituendo, in tal caso, il rapporto di lavoro una ‘‘mera occasione’’ dell’evento dannoso, ovvero consegua alla violazione di obblighi specifici che trovino la ragion d’essere nel rapporto di lavoro, nel qual caso non può dubitarsi della natura contrattuale della responsabilità.

Un ultimo cenno, infine - in quanto afferente all’oggetto della sentenza qui scrutinata - alla casistica dell’‘‘insulto’’ proveniente dal proprio superiore in un contesto lavorativo caratterizzato dal costante perpetrarsi di condotte offensive. A tal riguardo va osservato che l’offesa alla dignità personale, che è insita nei principi massimi dell’ordinamento - cfr. art. 2 e 3 Cost. - ed imprescindibile al vivere sociale, è già ragione di danno all’individuo, come tale da risarcire; anche perché va prestata grande attenzione nel richiedere allegazioni soggettive, che possono facilmente essere esagerate ed amplificate, mentre il dato di base dell’aggressione alla percezione intima di sé propria di ciascun individuo - una volta superata la c.d. soglia minima di tollerabilità - è ineludibile e mai trascurabile; potrà dirsi in casi di lieve rilevanza che sia sufficiente un ristoro anche di misura non elevata, purché tale da far percepire chel’ordinamento reagisce a ricomporre anche economicamente la violazione della regola intersoggettiva, ma non può ammettersi un rigetto della pretesa per mancanza di ulteriori allegazioni laddove l’offensività è palese (cfr. Cass. 29.11.2023 n. 33276; Cass. SS.UU. n. 11.08.2008 n. 26972).

In conclusione, in presenza di comportamenti offensivi della persona, consistenti in condotte di emarginazione lavorativa accompagnate da insulti, il lavoratore ha diritto, in misura congrua rispetto al caso ed equitativamente determinata, al risarcimento del danno alla dignità personale.

Il caso di specie

Il ricorrente ha dedotto di aver lavorato, dal 25.8.2020 al 17.3.2021, alle dipendenze del Sig. [Omissis], svolgendo l’attività di bracciante agricolo, rispettando un orario di lavoro articolato dalle ore 7:00 alle ore 16:00, ogni giorno della settimana, senza regolarizzazione alcuna del rapporto. Pertanto, presupposta l’addotta natura subordinata del rapporto lavorativo intrattenuto con il Sig. [Omissis], ha agito in giudizio innanzi al Tribunale di Tivoli, chiedendo la condanna di costui al pagamento delle differenze retributive, come risultanti da conteggi versati in atti. Il ricorrente si è altresì doluto di aver espletato le proprie mansioni in un contesto di profonda incuria e degrado, in un ambiente di lavoro contraddistinto da igiene precaria e reso invivibile da continui insulti, anche a sfondo razziale, rivolti nei suoi confronti.

In ragione di ciò ha altresì richiesto la condanna della parte datoriale al risarcimento dei pregiudizi arrecati alla dignità lavorativa, all’onore e alla sfera morale, in ragione delle mortificazioni subite pressoché quotidianamente. Infruttuosamente espletato il tentativo di conciliazione, il giudizio veniva istruito con l’escussione di testimoni e l’espletamento dell’interrogatorio formale del convenuto, il quale, tuttavia, non ha presenziato all’udienza fissata per l’interpello - trattasi, quest’ultima, di una circostanza a cui il Giudicante ha conferito peso decisivo nel decidere la questione, come si dirà nel proseguo -.

Di seguito, lo stralcio di alcune deposizioni testimoniali - sulla cui ritenuta attendibilità il Giudicante ha di fatto fondato la propria decisione - attestanti come il ricorrente, da agosto 2020 a marzo 2021, avesse quotidianamente lavorato nei terreni agricoli situati nel Comune di Colonna, impegnandosi, sotto la direzione e l’organizzazione del Sig. [Omissis] nell’attività di raccolta di kiwi e delle olive, oltre che nella pulizia dei predetti terreni.

Segnatamente, ha riferito il teste indicato da parte ricorrente: ‘‘Ho lavorato con il ricorrente in Colonna Galera presso campi di agricoltura. Abbiamo lavorato insieme per sette mesi, da agosto 2020. Io raccoglievo kiwi, e raccoglievo i rami caduti mettendoli insieme e poi portavo il legno a casa del capo. Il sabato e la domenica lavoravo al giardino grande [del capo n.d.r.] […]. Anche il ricorrente faceva queste cose […]. Io ed il ricorrente dormivamo a casa del capo, un furgone/casa grande circa 5 metri. Io ed il ricorrente dormivamo nello stesso furgone insieme ad un’altra persona […]. Ho conosciuto [Omissis, i.e., il capo, n.d.r.], perché ho parlato con il mio avvocato che mi ha detto che c’era un programma per prendere i documenti italiani e che dovevo andare al campo per fare il programma di sanatoria […]. Era presente [il capo, n.d.r.], tutti i giorni perché abita vicino ai campi. Lui veniva tutti i giorni per vedere quello che facevamo e ci diceva cosa dovevamo fare, diceva fai quello, fai questo […]. Non ha mai dato soldi per il lavoro da noi svolto […]. Ha dato soldi a me quando gli altri sono andati via. Mi ha dato prima 300,00 poi 400,00 ed infine 500,00 euro. Ma solo quando il ricorrente è andato via’’. Il teste ha altresì spiegato le ragioni della cessazione del rapporto di lavoro del ricorrente: ‘‘Il ricorrente è andato a denunciare [Omissis, i.e., il capo, n.d.r.] perché non faceva niente per la sanatoria e [Omissis, i.e., il capo, n.d.r.] gli ha detto che non doveva venire più’’. 

Circostanze, queste, che hanno trovato conferma anche nella deposizione rilasciata dal teste indicato da parte convenuta - trattasi, segnatamente, dalla ex moglie -: ‘‘Quando ho lavorato [presso i campi di kiwi dell’ex marito, n.d.r.] erano già presenti i ragazzi, compreso il ricorrente. Vivevano in un alloggio che era un container adiacente ai campi. Ogni tanto il ricorrente doveva andare a Frosinone presso un centro di accoglienza […]. Erano cinque o sei ragazzi di colore […]. Il mio ex marito dava le indicazioni lavorative al ricorrente […]. Il convenuto supervisionava il lavoro presso i campi […]. Io so che i ragazzi dovevano andare a Frosinone almeno una volta a settimana perché, altrimenti, mi pare di aver capito, perdessero il posto letto […]”.

Istruita la causa - e preso atto di come l’udienza fissata per l’interrogatorio formale del convenuto fosse andata deserta - la stessa è stata trattenuta in decisione.

Le motivazioni della Sezione Lavoro del Tribunale di Tivoli

Il Tribunale di Tivoli ha ritenuto il ricorso fondato, tanto con riferimento alla domanda di ristoro del danno patrimoniale, quanto alla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto al primo aspetto, il Giudicante ha ritenuto dimostrata - anche sulla scorta delle risultanze delle testimonianze rilasciate in corso di giudizio - la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato full time dal 25.08.2020 al 17.03.2021, alla luce della ritenuta sussistenza dei seguenti elementi sintomatici:
a) prestazione lavorativa resa sotto il potere di direzione, organizzazione e controllo del datore di lavoro;
b) la messa a disposizione delle energie lavorative del ricorrente;
c) la continuità della prestazione;
d) l’assenza del rischio in capo al prestatore di lavoro; e
) l’osservanza di un determinato orario di lavoro;
f) la natura ‘‘elementare’’ dell’apporto lavorativo.

Pertanto, ritenuto che le mansioni di bracciante agricolo espletate dal ricorrente possono essere ricondotte, quanto a trattamento giuridico ed economico, a quel parametro di riferimento rappresentato dal CCNL Agricoltura - Operai, Area 3, livello V, l’adito Tribunale ha condannato il datore di lavoro al pagamento di euro 6.973,60 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione al saldo, così come risultanti dalla sommatoria delle voci di imputazione riportate nell’analitico prospetto di calcolo allegato al ricorso - retribuzione ordinaria mensile, mensilità aggiuntive, ferie, riduzioni dell’orario di lavoro, festività, indennità di mancato preavviso, Tfr -.

Parimenti fondata è stata ritenuta la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale lamentato dal ricorrente per aver subito, in costanza di rapporto di lavoro, trattamenti mortificanti ed altamente lesivi della propria dignità personale.

A tal riguardo, il Giudicante ha ritenuto dimostrata, a seguito dell’attività istruttoria espletata in corso di causa, la circostanza per cui il ricorrente fosse stato pesantemente e costantemente insultato durante lo svolgimento delle proprie mansioni, anche con epiteti a sfondo razziale - ricevuti i quali, il lavoratore non di rado scoppiava in crisi di pianto -, nonché l’ulteriore circostanza per cui lo stesso alloggiava in un ‘‘inospitale’’ container posto a margine dei campi, condiviso con altri lavoratori. Nello specifico, il Tribunale - anche tenuto conto dell’assenza del convenuto all’udienza fissata per l’interrogatorio formale, il tutto a dispetto dei gravissimi fatti ascrittigli - ha valorizzato la dichiarazione testimoniale secondo cui: ‘‘ [Omissis, i.e., il capo, n.d.r.] ci diceva parolacce, quando lavoravamo ci diceva sempre parolacce del tipo: vaff***, bast*** e ci diceva neg*** di mer*** […]. Era arrabbiato tutti i giorni e ci diceva queste parole. Il ricorrente piangeva quando sentiva queste frasi […]. Tutti i giorni ci diceva frasi offensive’’.

Come conseguenza, facendo applicazione del costante orientamento giurisprudenziale, da ultimo rinvigorito da Cass. n. 25114/2024, secondo cui “in presenza di comportamenti offensivi della persona, consistenti in condotte di emarginazione lavorativa accompagnate da insulti, il lavoratore ha diritto, nella misura congrua rispetto al caso di specie ed equitativamente determinata, al risarcimento del danno alla dignità personale, senza necessità di ulteriori allegazioni quanto ai profili pregiudizievoli di tali condotte ed a prescindere dal ricorrere di altri danni”, il Tribunale ha condannato parte convenuta, tenuto conto della gravità, della gratuità e della sistematicità delle offese - per giunta provenienti dal titolare della ditta, nel contesto di un rapporto privo di qualsivoglia forma di regolarizzazione - al risarcimento del danno non patrimoniale arrecato alla dignità personale del lavoratore, determinato in via equitativa - e senza necessità di sforzi allegatori ulteriori - in euro 1.000,00 per ogni mese di rapporto e, così, per complessivi euro 7.000,00, oltre le spese di lite, prestando ossequio al principio generale di soccombenza.

Osservazioni conclusive

La pronuncia in scrutinio, connotata da evidenti risvolti sociali oltre che giuridici, presenta l’indubbio pregio di poter rappresentare una vera e propria svolta nella materia del lavoro dei cittadini extracomunitari legata ai flussi di ingresso.

La stessa - qualora corroborata da pronunce dello stesso segno, anche nei gradi superiori di giustizia -, potrebbe rappresentare, inter alia, uno strumento di deterrenza contro la precarietà lavorativa, che è una condizione tollerabile, ma non per un tempo indefinito, occorrendo riconoscere ai lavoratori extracomunitari senza regolare occupazione la possibilità di trovare un nuovo impiego e di poter stabilizzare il proprio livello di reddito tracciabile.

Tuttavia, il periodo di precarietà ammissibile non può sconfinare oltre un intervallo di tempo ragionevole, posto che soltanto collocandosi in un virtuoso circuito economico, rispettoso delle regole fiscali e previdenziali, i lavoratori extracomunitari possono fornire un concreto apporto alla crescita e al benessere economico del Paese al quale hanno chiesto ospitalità. Perseguendo la suddetta via, si conseguirebbe l’obiettivo della sostenibilità dell’ingresso dello straniero nella comunità nazionale; ed invero, soltanto il suo legittimo collocamento nel contesto lavorativo e la sua capacità di contribuire con le proprie energie ed impegno allo sviluppo economico e sociale del Paese ospitante, consentirebbero di scongiurare l’inserimento nella comunità nazionale di individui che non siano in grado di offrire un’adeguata contropartita in termini di lavoro e, quindi, di formazione del prodotto nazionale e di partecipazione fiscale alla spesa pubblica.

Diversamente opinando, costoro, in quanto indigenti, finirebbero per gravare oltremodo sul pubblico erario come beneficiari a vario titolo di contributi e di assistenza sociale e sanitaria. D’altro canto, una fonte lecita e tracciata di sostentamento costituisce la prima garanzia a che il cittadino extracomunitario non persegua attività illecite o criminose.

Alla pronuncia in commento va altresì riconosciuto l’ulteriore - e, a parere di chi scrive, prioritario - merito di aver riaffermato in termini perentori la garanzia, in capo al soggetto extracomunitario - lavoratore o non - di un nucleo irriducibile del proprio diritto all’integrità psico-fisica protetto dalla Costituzione, come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di escludere la determinazione di situazioni prive di tutela, che possano pregiudicare l’attuazione di quel diritto.

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*Avv. Alessandro D’Achille - Of Counsel BLB Studio Legale

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