Civile

Società di capitali: illegittima la revoca al vice presidente del Cda se discrimatoria

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di Patrizia Maciocchi


La revoca dell'incarico al presidente e vicepresidente del Cda, di norma consentita, è illegittima se è la risposta al tentativo del vertice di invocare, in buona fede, la parità di trattamento per un lavoratore straniero. Anche se nel caso specifico la discriminazione, data per scontata dalla Corte d'Appello, deve essere sottoposta ad un ulteriore vaglio da parte dei giudici territoriali, la Cassazione, con la sentenza 31660, coglie l'occasione per fare il punto sulle ragioni che giustificano la revoca degli incarichi. La vicenda esaminata prende le mosse dal ricorso di una banca contro la condanna al risarcimento in favore del vicepresidente del Cda, al quale era stata tolta la carica per una condotta che la corte d'Appello aveva considerato discriminatoria. Ad avviso dei giudici territoriali, infatti, il provvedimento assunto era, stando agli atti, la reazione del consiglio di amministrazione che lo aveva votato, al comportamento del vicepresidente che aveva preso in più occasione le difesa di un dipendente straniero trattato in maniera iniqua rispetto agli altri.

La Cassazione ricorda che il vice presidente del Cda, può essere esonerato, in presenza di una giusta causa e che questa c'è ogni volta che venga compromesso il rapporto fiduciario. Una fattispecie che non è però integrata quando il revocato ha compiuto una lecita e corretta attività finalizzata ad ottenere parità di trattamento, ragione per la quale viene “rimosso”. La logica conclusione è che quando questo “impegno” è messo in atto con modalità lesive, in via diretta o indiretta degli interessi societari, allora viene meno la tutela di legge.

Gli obblighi da rispettare sono quelli essenziali, individuati nella buona fede e nella correttezza nei rapporti interprivati. Se questo non accade, il manager non può avere tutela né risarcimento, anche se aveva davvero l'intenzione di favorire un trattamento paritario. Nel caso esaminato, sul punto, la Suprema non concorda con i giudici di secondo grado che avevano registrato la “netta chiusura” della banca alle segnalazioni e alle richieste di intervento dell'amministratore, per porre fine al trattamento discriminatorio. Per la Cassazione però la via seguita dal vice presidente non era rituale.

Malgrado la disponibilità del Cda a trattare la questione, l'amministratore aveva inviato una lettera personale, sollecitando alcuni specifici soci. Spetta ora alla Corte d'appello, in sede di rinvio, valutare se tale condotta sia rispettosa del dovere di agire lecitamente e con correttezza verso la società

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