Civile

Sospeso l'avvocato che viola il dovere di verità

Violato il dovere deontologico di verità dall'avvocato che dichiara falsamente che i propri clienti sono stati assolti invece che prosciolti

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di Marina Crisafi

Giusta la sanzione della sospensione per l’avvocato che viola il dovere deontologico di verità, dichiarando falsamente che i suoi clienti sono stati assolti in sede penale. È quanto affermano le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 41990/2021), rigettando il ricorso di un legale avverso la sentenza che ne confermava la sospensione per 4 mesi dall’esercizio della professione forense.

  La vicenda
Nella vicenda, il Cnf, in parziale riforma del provvedimento del Consiglio Distrettuale di Disciplina dell'ordine degli Avvocati di Roma, aveva rideterminato la sanzione disciplinare applicata nei confronti dell’avvocato ricorrente, in quella della sospensione dall'esercizio della professione per quattro mesi, confermando nel resto la decisione che aveva ritenuto il professionista responsabile della violazione degli articoli 6 e 14 del codice disciplinare previgente per aver dichiarato, contrariamente al vero, nell’atto di citazione della causa promossa dai suoi assistiti che gli stessi erano stati assolti nel procedimento penale in cui erano imputati per violenza privata e che il testimone aveva ritrattato scagionandoli.

In realtà, il processo era stato definito con il proscioglimento degli imputati per difetto di querela.

Successivamente, l’avvocato citava la società controparte per sentirla condannare al risarcimento dei danni, per il turbamento psicologico derivato ai suoi assistiti dall'essere stati sottoposti ingiustamente a procedimento penale e poi assolti.

 

La decisione del Cnf
Il Consiglio nazionale forense, osservava che l'avvocato era ben consapevole della portata giuridica della sentenza del tribunale penale, stante l'adesione prestata alla derubricazione del reato, e che con la sua condotta aveva violato sia il dovere di lealtà e correttezza (artt. 9 e 50 del codice deontologico), sia il dovere di verità, pure previsto dall'articolo 50, “in cui viene sancito il dovere dell'avvocato di non rendere false dichiarazioni sull'esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza”.

 

Mero “errore” tra proscioglimento e assoluzione
L’avvocato, dal canto suo, proponeva ricorso per cassazione, deducendo l’illegittimità della sanzione disciplinare irrogata, violazione di legge e violazione degli artt. 9 e 50 in ordine alla supposta violazione dell'obbligo di verità.

A suo dire, il codice deontologico forense (articolo 50 testo attuale, 14 testo previgente) prevede il dovere di verità inteso come “dovere di non rendere false dichiarazioni sull'esistenza o inesistenza di fatti di cui l'avvocato abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato”.

Questo presuppone, dunque, “la consapevolezza in capo al legale circa la falsità della dichiarazione resa in ordine alla inesistenza - esistenza del fatto”. Nella specie, però, sosteneva il legale, il delitto di violenza privata per il quale si era proceduto era risultato insussistente e l'errore dell'avvocato era stato “solo quello di aver esperito l'azione per il risarcimento del danno patito dai suoi assistiti, rappresentando con il termine assoluzione e non proscioglimento la pronuncia su un reato meno grave che non era a fondamento dell'istanza risarcitoria avanzata”, sicché l'uso errato del termine non era finalizzato né idoneo a trarre in errore il giudice, il quale aveva ben rappresentato la reale situazione nella sentenza di primo grado.

Il professionista lamentava inoltre, proprio a causa dell’errore in cui era incorso con riferimento alla ritenuta equivalenza tra assoluzione e proscioglimento, l’assenza della coscienza e volontà consapevole del commettere un illecito disciplinare, per cui deduceva l’illegittimità della sanzione impugnata con riferimento anche al trattamento sanzionatorio.

 

L’avvocato conosce la differenza tra assoluzione e proscioglimento

Per le Sezioni Unite, tuttavia, il ricorso è infondato e va rigettato. Come indicato dal Cnf, “la qualifica professionale dell'incolpato non consente di supportare la tesi dell'errore nell'uso dell'espressione assoluzione in luogo di proscioglimento – scrivono i giudici, essendo l’avvocato, peraltro - ben consapevole della relativa differenza, per aver prestato adesione alla derubricazione del reato che ha comportato il proscioglimento per assenza della condizione di procedibilità”.

La circostanza, poi, che la situazione reale sia stata ben rappresentata dal giudice nella sentenza civile che ha rigettato la domanda risarcitoria, non sta a significare di per sé certo “irrilevanza della condotta”, poiché la sentenza è stata resa all'esito del contraddittorio e alla rappresentazione della realtà dei fatti ha contribuito l'attività della controparte.

Non potendo elidersi la condotta relativa al dovere di verità, resta ferma, quindi, la sanzione irrogata, “essendo l'apprezzamento della gravità del fatto e della condotta addebitata all'incolpato, rilevante ai fini della scelta della sanzione opportuna ai sensi dell'art. 22 del codice deontologico forense, rimesso all'Ordine professionale e non consentendo il controllo di legittimità sull'applicazione di tale norma che la Corte di cassazione possa sostituirsi al Consiglio nazionale forense nel giudizio di adeguatezza della sanzione irrogata”.

 

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