Società

Spa «chiuse», azioni proprie valide per il quorum costitutivo e deliberativo

La Cassazione, sentenza n. 23557 depositata oggi, torna a fare il punto su una delicata questione in linea con quanto già disposto con la sentenza n. 23950 del 2 ottobre 2018

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di Francesco Machina Grifeo

La Cassazione, sentenza n. 23557 depositata oggi, ribadisce che nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le azioni proprie sono incluse nel computo sia del “quorum” costitutivo che di quello deliberativo. Si tratta di una questione, ricorda la I Sezione civile, di cui la Suprema corte si era già occupata con la sentenza n. 23950 del 2 ottobre 2018, sempre con riguardo la Salini Spa.

La pronuncia riguardava l’impugnazione di una deliberazione assembleare del 2012 con cui era stata disposta l’assegnazione gratuita, in favore dei soci, proporzionalmente alle rispettive partecipazioni, delle azioni in proprietà della società. La Corte territoriale aveva respinto il gravame confermando la sentenza di primo grado che aveva annullato la deliberazione in quanto il presidente dell’assemblea, pur conformandosi all’ordine, impartitogli dal Tribunale, di prendere in considerazione le azioni proprie ai fini del computo della maggioranza deliberativa, aveva escluso dal conteggio i voti espressi dai soci di minoranza.

In sintesi, la Corte di appello milanese ha ritenuto che le azioni proprie andassero computate nel quorum deliberativo; ha quindi negato che tra i poteri del presidente dell’assemblea rientri anche quello di escludere dal computo del quorum suddetto il voto di soci in conflitto di interessi ed escluso, comunque, che tale conflitto nella fattispecie sussistesse, posto che il voto contrario espresso dai soci di minoranza trovava giustificazione nella progettata distribuzione gratuita delle azioni, che avrebbe reso la maggioranza, già detentrice del 47,12% del capitale sociale, padrona assoluta della società ed ha riconosciuto la responsabilità risarcitoria di tutti gli amministratori della società.

L’art. 2357-ter c.c., ricorda la Cassazione, prevede, al secondo comma, che il diritto di voto delle azioni proprie è sospeso, ma che dette azioni sono «computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea»; opposta regola è operante per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, in quanto per esse «il computo delle azioni proprie è disciplinato dall’art. 2368, terzo comma», e quindi dette azioni «non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione».

Il dettato normativo vigente, dunque, è nel senso che, nelle società per azioni che non ricorrono al mercato del capitale di rischio, le azioni proprie debbano essere sempre conteggiate nel calcolo non dei soli quorum assembleari costitutivi, ma anche di quelli deliberativi. La nuova disposizione, infatti, prosegue la Corte, “non lega affatto il calcolo alla diversa circostanza se la base per il medesimo sia il capitale sociale oppure quello rappresentato in assemblea, imponendo di calcolare in ogni caso le azioni proprie”.

La volontà espressa dal legislatore, spiega la Corte, trova ragione nell’esigenza di impedire, nelle società «chiuse», che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri dei soci e, più in generale, che risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale: la prospettiva funzionale associata alla norma vigente - osservano i giudici - è dunque rovesciata rispetto a quella che poteva accostarsi alla precedente versione del testo legislativo, ove era dominante il fine di evitare situazioni di stallo, per l’impossibilità di formare una maggioranza, rispetto a decisioni dalle quali dipendesse la stessa sopravvivenza della società (Cass. 16 ottobre 2013, n. 23540 cit.).

Così, tornando al caso concreto, il differente impatto delle due prescrizioni è del tutto evidente. In una situazione in cui il gruppo di maggioranza detiene il 47% del capitale sociale, quello di minoranza il 43% e le azioni proprie rappresentano il 10% del detto capitale, la base di calcolo è sempre rappresentata dalla totalità del capitale, con la conseguenza che gli azionisti di maggioranza non possono mai raggiungere (in prima, come in seconda convocazione dell’assemblea ordinaria) il quorum deliberativo.

In base alla prescrizione che imponeva di considerare le azioni proprie solo per i quorum che si configurino come quote del capitale sociale, i soci detentori del 47% delle azioni sociali potevano imporre le loro decisioni alla minoranza nelle assemblee ordinarie in seconda convocazione, in cui il quorum si riduceva al 90%. La prima soluzione, chiosa la Cassazione, premia l’esigenza di evitare che l’acquisto di azioni proprie possa alterare il peso delle partecipazioni azionarie all’interno dell’assemblea a vantaggio del gruppo di maggioranza; la seconda valorizza l’interesse a che la formazione della volontà assembleare non sia penalizzata e sfoci nella sostanziale e perdurante inattività dell’organo deliberativo.

In definitiva, il legislatore facendo uso della propria discrezionalità, “difronte a più soluzioni astrattamente ipotizzabili”, ha optato per il criterio che “più si mostrava capace di preservare, in seno all’assemblea, gli equilibri preesistenti all’acquisto delle azioni proprie da parte della società”. Tale discrezionalità, aggiunge la Corte, è stata spesa differenziando le società «chiuse» da quelle «aperte» ed escludendo per queste ultime che le azioni proprie fossero incluse nel quorum deliberativo: “ciò al fine evidente di consentire che in queste ultime, in cui l’azionariato è diffuso, la maggioranza si formasse in modo più agevole”.

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