Famiglia

Sul requisito della coabitazione del figlio maggiorenne nella casa familiare ai fini della sua assegnazione

La Suprema Corte, con ordinanza 27 ottobre 2020 n. 23473, ha affrontato nuovamente, nell'ambito di un procedimento di divorzio, il tema dell'assegnazione della casa familiare a uno dei due genitori, in presenza di prole maggiorenne

di Stefania Rossi


Il provvedimento di assegnazione dell'abitazione familiare in sede di divorzio, come desumibile dall'art. 6, comma 6, della legge n. 898 del 1970 - analogamente a quanto previsto, in materia di separazione dei genitori anche se non uniti in matrimonio, dall'art. 337 sexies c.c., introdotto con D.lgs. n. 154 del 2013 - è subordinato alla presenza di figli, minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, conviventi con il genitore istante.

Come è noto, il godimento della casa familiare o coniugale è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli, occorrendo soddisfare l'esigenza di assicurare loro la conservazione dell'habitat domestico, da intendersi come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare.

Resta, invece, estranea e ultronea ogni valutazione relativa alla ponderazione degli interessi di natura solo economica dei coniugi o dei figli.

Quanto al figlio maggiorenne, affinché sia soddisfatta la ratio della disposizione normativa, devono pertanto sussistere, in contemporanea, due requisiti: quello della non autosufficienza economica e quello della coabitazione. In assenza di tali circostanze, il Giudice non potrà adottare alcun provvedimento di assegnazione e il godimento dell'immobile sarà regolato dalle norme, che discendono dal titolo giuridico su cui esso si fonda.

La definizione e la delimitazione del concetto di "coabitazione" di un figlio maggiorenne assume, quindi, importanza centrale ai fini della concessione o meno del provvedimento di assegnazione; pervenendo a conclusioni anche molto diverse tra loro, nel corso degli anni, la giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha avuto modo di definire i caratteri rilevanti per la sua qualificazione, individuandoli nell'abitualità, nella stabilità e nella continuità di abitazione dell'immobile da parte del nucleo familiare e, quindi, della prole. Ciò in quanto non è raro che, anche solo per ragioni di studio, un figlio maggiorenne si trasferisca in una diversa città o, addirittura, in un differente Paese.

Nel caso oggetto dell'Ordinanza emessa dalla Suprema Corte, il padre aveva chiesto la revoca dell'assegnazione della casa familiare - sita a Rimini - disposta a favore della madre, deducendo il fatto che il figlio maggiorenne vivesse ormai stabilmente a Bologna - quindi in un'altra città - e rientrasse solo occasionalmente presso l'abitazione oggetto del contendere. In punto di diritto, il ricorrente, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, aveva evidenziato che "la nozione di convivenza rilevante agli effetti dell'assegnazione della casa familiare comporta la stabile dimora del figlio presso l'abitazione di uno dei genitori con sporadici allontanamenti, con l'esclusione di saltuario ritorno presso l'abitazione solo per i fine settimana, come accade nel caso di specie".

Nella recente pronuncia citata, tuttavia, la Corte ha disatteso le istanze paterne, ritenendo che il rientro del figlio presso la casa familiare nel fine settimana integrasse pienamente "il requisito della convivenza con la madre presso tale abitazione", attribuendo quindi rilievo non già alla convivenza quotidiana, ma - in sostanza - allo stabile collegamento tra il figlio e l'abitazione, ove vive ancora il genitore.

Gli Ermellini hanno, quindi, rigettato l'istanza del padre, confermando il provvedimento di assegnazione della casa familiare alla madre, ritenendo di dover continuare a garantire il mantenimento delle consuetudini di vita e delle relazioni sociali del figlio maggiorenne nell'ambiente originario.

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