Sustainable finance e criteri ESG: avvertenze per l'uso
Seppur innegabili alcuni traguardi finora raggiunti in ambito nazionale e sovranazionale, la transizione verso una green economy sembra essere ancora un percorso ripido e tortuoso. Le nozioni che la stessa sottende risultano infatti ancora troppo vaghe e solo in parte supportate da una compiuta disciplina normativa.Tali carenze, peraltro, potrebbero innescare più problemi rispetto a quelli che, proprio tali espressioni, avrebbero voluto risolvere, o quantomeno attenuare
Premessa
Nel corso dell'ultimo ventennio, le tematiche ambientali hanno acquisito una straordinaria capacità di orientare le scelte del mondo economico-finanziario.
Dopo lunghi anni di sperimentazione e, soprattutto, a seguito della conclamata emergenza socio-ambientale, è finalmente maturata l'idea che, nello svolgimento di qualsiasi attività di natura economica, occorre tenere in considerazione le relative implicazioni esterne sull'ambiente.
È stata così coniata l'espressione "finanza sostenibile", la quale altro non è che la concreta applicazione del concetto di sviluppo sostenibile all'attività finanziaria.
Secondo alcuni, infatti, la sostenibilità è divenuta un concetto ormai acquisito, non più ignorabile, che, se applicato correttamente al settore finanziario, riuscirebbe a generare un profitto economico rispettando, allo stesso tempo, la capacità di carico dell'intero ecosistema.
In questo contesto di profonda rivalutazione delle istanze ambientali, si collocano i c.d. criteri ESG. L'acronimo sta per Environmental, Social and Governance e viene utilizzato per descrivere quegli ambiti verso cui sono generalmente diretti gli impegni di un investimento responsabile, ovvero un investimento che persegue gli obiettivi tipici della gestione finanziaria tenendo però in considerazione anche aspetti di natura, appunto, ambientale, sociale e di governance.
Non a caso, sono approdate nel linguaggio giuridico-finanziario (e non solo) espressioni come la corporate social responsability ed il successo sostenibile della società. Tali concetti, insieme al menzionato paradigma ESG, nonché all'allargamento dell'orizzonte delle strategie societarie oltre l'esclusivo interesse degli azionisti (c.d. stakeholder value), hanno progressivamente assunto una posizione dominante nel dibattito sulle prospettive future del capitalismo.
L'idea di promuovere la transizione verso un'economia circolare si è peraltro rapidamente diffusa anche nella prassi finanziaria italiana: asset manager ed emittenti quotati stanno ormai adottando approcci operativi nella definizione delle proprie politiche decisionali, maggiormente incentrati sulla tutela dei propri stakeholders, nonché sulla creazione di valore nel lungo periodo.
Si è così sedimentata la consapevolezza che l'attività di qualsiasi società e quindi, in ultima istanza, le aspettative dei suoi soci/investitori, non possono essere intese come distaccate dal contesto in cui l'impresa opera e, in particolare, dagli interessi di tutti i soggetti, diversi dai soci, che, a vario titolo, entrano "in contatto" con l'impresa stessa.
Il framework normativo.
Al fine di favorire la transizione verso un'economia sostenibile, l'Unione europea già nel marzo 2018 aveva avviato un ambizioso progetto denominato "Piano d'Azione per finanziare la crescita sostenibile". Successivamente, un ulteriore passo verso la green economy è stato fatto con il c.d. European Green Deal, con cui l'Unione europea mira a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, favorendo tra l'altro finanziamenti ed investimenti sostenibili.
Così, lo scorso anno, la Commissione europea ha concluso la consultazione pubblica per l'adozione di una nuova strategia sulla finanza sostenibile (consultation on renewed sustainable finance strategy), che ha definito, in attuazione dell'articolo 2.2.1 del menzionato Green Deal, nuovi progetti e azioni per offrire maggiori opportunità agli investitori e alle imprese, agevolando peraltro l'individuazione degli investimenti sostenibili e garantendone la loro credibilità.
Preme inoltre segnalare che anche il programma straordinario denominato Next Generation EU (NGEU), adottato dall'Unione europea in risposta allo shock pandemico, riafferma l'obiettivo della transizione verso un'economia sostenibile, stabilendo che almeno il 37% delle risorse erogabili debba essere destinato ad azioni per il clima ovvero per la sostenibilità ambientale e che i progetti finanziati dal programma non abbiano ripercussioni negative sull'ambiente.
Si assiste dunque ad una serie di eventi che testimoniano la volontà di adottare un diverso approccio legislativo, concentrato sull'applicazione di misure, sotto certi aspetti, innovative, che dovrebbero astrattamente tutelare gli interessi di una platea di soggetti molto più vasta rispetto alle singole società.Tale approccio, in particolare, mira ad ottenere un miglioramento delle dinamiche decisionali adottate sia dagli investitori che dalle stesse società, nella misura in cui sostiene quelle scelte di investimento e/o finanziamento che identificano obiettivi specifici, inclusivi dei fattori ESG, ovvero a favore delle società che garantiscono il proprio impegno verso la riorganizzazione dei processi di produzione e consumo. Secondo un autore [ S. Cavallo, Il nuovo paradigma di sostenibilità e la centralità della ESG per l'industria finanziaria, su Diritto Bancario, 22 marzo 2021], sarebbe poi possibile tracciare le linee direttrici di quella che sarà la probabile evoluzione del trend normativo.
Al riguardo, pare inevitabile il protrarsi della spinta normativa a favore della menzionata transizione ecologica, la quale continuerà a favorire investimenti e finanziamenti green, in linea con l'auspicio dello stesso Green Deal europeo. In aggiunta, sembrerebbero ugualmente plausibili, anche le previsioni riguardanti due ulteriori aspetti.
Da un lato, dovrà essere attribuita maggiore chiarezza ed incisività al paradigma ESG, in quanto non si registra allo stato un'effettiva uniformità di giudizio su tali parametri.
Dall'altro, continuerà ad affermarsi quel concetto di governance, per così dire multidimensionale, che inciderà sempre più nelle dinamiche societarie sotto vari profili.
In particolare, i fattori ESG andranno progressivamente ad integrare gli elementi della business strategy, anche mediante l'articolazione di un corporate purpose nonché la definizione di specifici key performance indicators e meccanismi di disclosure.
Sotto altro profilo, i fattori ESG potrebbero infine essere elevati a veri e propri criteri selettivi nel processo di allocazione del capitale, il quale verrà distribuito in misura sempre più massiccia verso quei gestori e quelle società in grado di dimostrare la solidità delle proprie credenziali e del proprio track record di sostenibilità.Ciononostante, come autorevolmente sostenuto, gli operatori di mercato, e in particolare le autorità di vigilanza, saranno giocoforza costretti a misurarsi con molti più ostacoli, tra cui, inter alia, il rischio di:(i) instabilità finanziaria derivante dall'esposizione ai fattori ESG di operatori e comparti del sistema finanziario che in precedenza erano insensibili a tali istanze;
(ii) disallineamenti delle valutazioni di mercato rispetto al valore fondamentale dei titoli in funzione delle caratteristiche ESG dichiarate e/o di brusche correzioni dei corsi associate all'accelerazione della transizione ecologica impressa dalla rapida evoluzione del quadro normativo;
(iii) green-washing, di cui di discorrerà più approfonditamente infra.
Il wording della transizione: l'apparenza prevale sulla realtà?
Sebbene l'introduzione dei concetti menzionati nei precedenti paragrafi abbiano rivoluzionato, e continuino a rivoluzionare, il settore finanziario, l'applicazione degli stessi alla reale prassi operativa non è un'operazione affatto scontata.
La definizione di sostenibilità, ad esempio, non è univoca, ma presta il fianco ad interpretazioni diverse e variegate, le quali, nel tentativo di descrivere un fenomeno poliedrico, possono talvolta assumere connotati tra loro dissonanti.
Da un punto di vista prettamente economico, il termine sostenibilità indica la capacità di un soggetto di mantenere inalterato il proprio equilibrio finanziario su un orizzonte temporale relativamente vasto. Vale a dire che è sostenibile l'impresa che riesce nel tempo ad assicurare una crescita stabile e continua dei propri indicatori economici.In tal senso, la sostenibilità viene considerata da un punto di vista interno all'impresa, molto vicino, se non addirittura coincidente, a quello di amministratori e soci, spinti in talune occasioni a perseguire un interesse sociale c.d. contrattuale. Essa diventa riconducibile a quel concetto di continuità economica professato dall'art. 2086 del cod. civ. ed assume pertanto un'accezione diametralmente opposta rispetto alla crisi aziendale, ma piuttosto assimilabile all'idea di stabilità e di permanenza della medesima organizzazione all'interno di un mercato competitivo.
Sotto altra lente, la sostenibilità recentemente professata in ambito europeo fa invece riferimento ad una prospettiva esterna all'impresa; è cioè sostenibile l'impresa che nei propri processi decisionali attribuisce una rilevanza più o meno pregnante alle tematiche ambientali, sociali e di corretta governance societaria. Secondo tale approccio, la società persegue un interesse sociale c.d. istituzionale, per così dire dilatato, che tutela anche le aspettative dei soggetti esterni che, a vario titolo, entrano in contatto con la stessa. In altri termini, è sostenibile non l'impresa che cerca di massimizzare in maniera spasmodica il ritorno economico per i propri soci, bensì quella che punta a generare dei ricavi tenendo però in debita considerazione le specifiche istanze provenienti dall'esterno.
Da quanto detto, appare tuttavia evidente che qualsiasi entità, sia essa collettiva o individuale, possa trovarsi, nel corso della propria esistenza, a dover sceglier quale tipologia di sostenibilità dover perseguire, se quella economica ovvero quella ambientale.
È certamente illusorio, infatti, pensare che l'equilibrio dell'attività imprenditoriale e la protezione di ogni interesse che fa capo direttamente o indirettamente alla società (e quindi quelli dei dipendenti, dei fornitori, della comunità locale, della comunità nazionale, dell'orbe terraqueo, ecc.) siano finalità necessariamente coerenti, se non anche coincidenti.
Le due tipologie di sostenibilità non vanno necessariamente di pari passo, né per riconciliare le due fattispecie è sufficiente invocare la vaga formula dell'on the long run.
La sostenibilità economica, in talune circostanze, può infatti collidere con la sostenibilità ambientale, così come il perseguimento del paradigma Enviromental, Social and Governance può contrastare con gli interessi economici sottesi all'idea di società.Al riguardo, preme rilevare che gli obbiettivi riconducibili nella stessa formulazione ESG sono tra loro disomogenei. Risulta estremamente difficile, infatti, riuscire ad accogliere contemporaneamente istanze di natura ambientale, sociale e di buon governo societario.
In particolare, anche i due elementi apparentemente più coerenti tra loro (Enviromental e Social) possono talvolta cozzare; il perseguimento di finalità sociali può infatti andare a detrimento dell'ambiente e viceversa .
Con quanto affermato nel presente articolo, tuttavia, non si intende certo disconoscere le innegabili potenzialità di un investimento sostenibile, ma piuttosto rivolgere a tutti gli operatori di mercato un mero avvertimento: ponderare adeguatamente tutte quelle formule suggestive soltanto in apparenza, ma che in concreto risultano ancora vuote e sterili.
Il paradigma ESG deve pertanto rapportarsi consapevolmente al contesto societario e rappresentare un quid pluris, un valore aggiunto capace di realizzare un congruo contemperamento tra, da un lato, gli interessi egoistici della società, spesso incline a massimizzare i propri profitti nel breve termine pur di distribuire dividendi maggiori, e, dall'altro, le istanze dell'ambiente circostante, la cui tutela potrebbe potenzialmente generare valore nel lungo periodo.
Lo sforzo da compiere, per le società, deve essere allora quello di applicare in concreto concetti ed espressioni allo stato ancora troppo generici, bilanciando le istanze provenienti dall'esterno con il (preminente) interesse economico della società.
In altri termini, tali fattori devono assumere giusto rilievo nell'indirizzare qualsiasi scelta societaria, ma non possono, e soprattutto non devono, essere considerati come degli assiomi incontrovertibili, da rispettare in ogni caso e a prescindere peraltro da come ineriscano alla redditività dell'impresa.
Sarebbe impensabile ritenere che istanze così disomogenee tra loro possano essere in ogni caso sovrapponibili, così come altrettanto errata sarebbe la convinzione che l'interesse sociale contrattuale miri a conseguire risultati assolutamente inconciliabili con l'interesse sociale istituzionale.
Il fenomeno del green-washing: quando l'opportunismo si tinge di verde.
L'esasperazione della tendenza a voler apparire eco-friendly agli occhi degli stakeholders, la mancanza di criteri e modalità ben definiti per discernere cosa sia realmente sostenibile, nonché le iniziali lacune normative in materia, hanno spinto molte società a diffondere un'immagine di sé particolarmente attenta al concetto di sostenibilità, tuttavia per nulla aderente alla realtà dei fatti.
In particolare, a partire dall'inizio degli anni ′80, si è assistito ad una rapida diffusione di campagne pubblicitarie apparentemente finalizzate alla sensibilizzazione dei temi ambientali ma che in realtà mascheravano interessi di tipo economico.Ciò è stato reso possibile anche dall'assenza di controlli sui requisiti vantati dalle società, che hanno permesso a queste ultime di apparire green in virtù di una pseudo-classificazione (rectius di un'autoproclamazione) effettuata dalla stessa società.
Non a caso, in tale periodo, il termine greenwashing venne coniato dall'ambientalista newyorkese Jay Westervelt, il quale, in un saggio del 1986, criticò aspramente le imprese del settore alberghiero per la pratica diffusa di collocare in ogni camera una green-card che esortava il riutilizzo degli asciugamani, senza però che le stesse imprese mostrassero alcun tipo di impegno ulteriore verso un'effettiva salvaguardia ambientale – come, ad esempio, programmi per ridurre il consumo di acqua o di energia elettrica –, così confermando che la tecnica adoperata celava scopi esclusivamente economici, volti nello specifico ad abbattere i costi connessi alla pulizia della biancheria.
Da allora, il termine è stato utilizzato per indicare qualsiasi modello di business, senz'altro discutibile, mediante il quale le società esaltano, attraverso campagne pubblicitarie e strategie di marketing, il loro impegno a perseguire uno sviluppo sostenibile, soltanto per conseguire un profitto economico.Tra le pratiche più diffuse del green-washing può annoverarsi, in primis, l'utilizzo di una comunicazione ambigua, attraverso un linguaggio volutamente vago, generico, poco trasparente per l'utenza ovvero così specifico e settoriale da non risultare agevolmente fruibile.
Altri comportamenti sleali si riscontrano allorquando la società pubblicizzi la sostenibilità di una fase marginale del ciclo produttivo, sottacendo però l'impatto che le altre fasi generano sull'ambiente esterno, nonché ove vi sia contraddizione tra il messaggio diffuso dalla società e le tecniche adoperate per la sua diffusione.
Infine, nei casi più gravi, le imprese commettono green-washing mentendo sulle loro performaces ambientali, attraverso informazioni fuorvianti e slogan illusori.
Quale che sia lo stratagemma adoperato, tali tecniche sono ormai fortemente ripudiate dal nostro ordinamento. Le fattispecie analizzate sono infatti disciplinate da norme del codice civile e settoriali, nonché da specifici documenti di autodisciplina e, in particolare:
(i) dall'art. 2598, comma 3 del cod. civ., in base al quale compie atti di concorrenza sleale chiunque si avvale direttamente o indirettamente di ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l'altrui azienda;
(ii) dagli artt. 19-23 del D.lgs. 206/2005 (il "Codice del Consumo") e dagli artt. 2 e 3 del D.lgs. 145/07, che sanzionano le pratiche commerciali scorrette perché contrarie a diligenza professionale ovvero ingannevoli ed idonee a falsare il comportamento economico del loro destinatario; nonché
(iii) dagli artt. 2 e 12 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, che a loro volta impongono che la comunicazione commerciale non debba indurre in errore i consumatori e, laddove dichiari benefici ambientali, debba basarsi su dati veritieri, pertinenti ed empiricamente riscontrabili.
Al verificarsi di una pratica commerciale scorretta, le sanzioni in cui può incorrere la società che le ha poste in essere sono, oltre ovviamente al divieto di ulteriore diffusione della comunicazione commerciale fuorviante, l'applicazione di una penale per inottemperanza e l'ordine di pubblicazione della relativa decisione, nonché condanne da parte dei Tribunali ordinari al risarcimento dei danni e sanzioni economiche da parte dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ("AGCM") fino a 5 milioni di euro.
In particolare, tra i provvedimenti dell'AGCM più rilevanti sull'argomento, meritano senz'altro di essere menzionati:
(i) la sanzione per pubblicità ingannevole inflitta a Coop,
(ii) lo scandalo relativo al c.d. Diesel Gate ,
(iii) le pratiche commerciali scorrette inerenti al carburante ENIdiesel+ nonché
(iv) il recente caso Ryanair.
Conclusioni (e dovute cautele).
Sebbene lo sforzo che è stato fatto in ambito nazionale e sovranazionale è indiscutibile, come altrettanto innegabili sono alcuni traguardi finora raggiunti, la transizione verso una green economy sembra essere ancora un percorso ripido e tortuoso.
Le nozioni che la stessa sottende risultano infatti ancora troppo vaghe e solo in parte supportate da una compiuta disciplina normativa.Tali carenze, peraltro, potrebbero innescare più problemi rispetto a quelli che, proprio tali espressioni, avrebbero voluto risolvere, o quantomeno attenuare.
Basti pensare che il green-washing, brevemente analizzato nel capitolo precedente, rappresenta solo la punta dell'iceberg delle criticità connesse alla transizione ecologica.
Ebbene, abbracciando una tesi autorevolmente sostenuta, l'utilizzo di f ormule imprecise, vaghe e retoriche , non può certo risolvere quei problemi che invece sono reali, seri e talora anche allarmanti, ma può soltanto distogliere l'attenzione da quelle soluzioni che invece sarebbero strumenti normativi utili a raggiungere i risultati desiderati.
Parimenti, richiami a valori tra loro disomogenei, così come la tutela di troppo diversificate categorie di interessi (c.d. stakeholderism), di cui gli amministratori dovrebbero tenerne conto, amplierebbe notevolmente la discrezionalità del loro agire al punto da poter giustificare qualsiasi scelta gestoria.Del resto, come anticipato, appare irragionevole perseguire esclusivamente obiettivi di sostenibilità ambientale, sociale e di governance, a detrimento di quegli interessi, prettamente economici e finanziari, sui quali si fonda l'agire imprenditoriale.
Sarebbe invece più corretto sostenere che istanze – apparentemente – contrapposte tra loro, in realtà convivano, ed anzi concorrano al raggiungimento di obiettivi comuni, creando una forma di stabile equilibrio in cui le stesse trovano un vicendevole contemperamento; l'una è indispensabile per compensare i difetti dell'altra e viceversa, al punto che tale relazione dialettica è stata paragonata a quella che, nell'antica filosofia cinese, legava inscindibilmente yin e yang.
L'auspicio che rivolgiamo alle società, dunque, resta sempre lo stesso: occorre interrogarsi sulla reale portata delle espressioni professate nel contesto della transizione ecologica al fine di applicarle correttamente alla propria prassi operativa, ripudiando per converso un dogmatico affidamento su quei principi professati dalla tassonomia europea, allo stato, ancora troppo astratti e generici.
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*A cura di Francesco Dagnino e Giovanni Piscopo di Lexia Avvocati