Penale

Tra il reato di falso e quello di abuso sussiste un rapporto di assorbimento

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di Giuseppe Amato

Deve escludersi il concorso formale tra i reati di abuso d'ufficio e falso ideologico o materiale quando la condotta addebitata si esaurisce nella commissione di un fatto qualificabile come falso in atto pubblico, in ragione della clausola di riserva prevista dall'articolo 323 del Cp. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 13849 del 2017.

Infatti, la clausola di riserva non può essere intesa come applicabile solo nei rapporti tra reati aventi a oggetto la tutela del medesimo bene giuridico, poiché altrimenti si attribuirebbe alla stessa il significato di un inutile doppione del principio di specialità: per l'effetto, a fronte di un fatto unico, detta clausola impone di applicare esclusivamente il trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie più grave, anche se la stessa ha a oggetto la tutela di un bene giuridico diverso da quello presidiato dalla disposizione assistita da pena meno severa. Né osta a ravvisare l'identità del fatto la diversità di struttura tra il reato di abuso d'ufficio (di evento, integrato da dolo intenzionale) e quello di falso (di mera condotta, integrato dal dolo generico), perché quando l'evento ulteriore preso in considerazione da una sola delle due fattispecie è un evento giuridico, ma non materiale, ovvero quando muta il solo contenuto del dolo, può comunque continuarsi a parlarsi di identità del fatto.

La Cassazione ribadisce l'orientamento prevalente in forza del quale tra il reato di falso e quello di abuso d'ufficio sussiste un rapporto di assorbimento, quando la condotta del pubblico ufficiale si esaurisce in un fatto qualificabile come falso in atto pubblico. L'articolo 323 del Cp, infatti, contiene una clausola di consunzione (”salvo che il fatto non costituisca più grave reato”) che impone di considerare la fattispecie dell'abuso d'ufficio quale residuale e/o meramente eventuale e che è diretta, indipendentemente da un rapporto di specialità, a escludere l'applicazione del precetto penale nel caso in cui il fatto materiale, ovvero il comportamento abusivo, costituisca al tempo stesso un reato più grave. E ciò si verifica non solo quando il fatto commesso realizza un ulteriore reato che implica l'abuso di poteri dell'ufficio (ad esempio: peculato, corruzione), ma anche quando una fattispecie criminosa di diverso contenuto illecito (ad esempio truffa, falso) è commessa, o è aggravata, mediante un comportamento che costituisce abuso d'ufficio, che in essa si consuma, a nulla rilevando, in senso contrario, la diversità dei beni giuridici eventualmente protetti dalle diverse norme incriminatrici o la circostanza che mediante la condotta integrante il reato più grave il soggetto abbia altresì realizzato un proprio o altrui vantaggio patrimoniale ovvero abbia intenzionalmente arrecato ad altri un danno.

Alla regola della consunzione dell'abuso nel più grave reato si fa eccezione, ovviamente, solo se la condotta abusiva risulta realizzata mediante attività o comportamenti produttivi di effetti giuridici ulteriori rispetto alla commissione della condotta integrante il reato più grave (tra le tante, sezione V, 10 novembre 2005, Cama, nonché sezione II, 11 ottobre 2012, Platamone). In senso diverso vi è comunque un orientamento minoritario, dove si esclude la sussistenza di un rapporto di assorbimento tra le due figure di reato e si afferma il concorso tra le stesse, basato sulla valorizzazione della circostanza che le due fattispecie offendono beni giuridici distinti, tutelando i delitti di falso la genuinità degli atti pubblici e quello di abuso d‘ufficio l'imparzialità e il buon andamento dell'amministrazione (di recente, sezione II, 11 dicembre 2013, Cuppari).

Corte di cassazione – Sezione VI penale - Sentenza 21 marzo 2017 n. 13849

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