Lavoro

Vent'anni dopo: rileggere la prima sentenza italiana sul Mobbing

La prima sentenza italiana sul Mobbing viene convenzionalmente identificata nella pronuncia del Giudice del Lavoro di Torino del 16 novembre 1999, sebbene anche prima il Mobbing avesse fatto ingresso nelle aule di tribunale, "trasversalmente"

di Roberto Colantonio*



La prima sentenza italiana sul Mobbing viene convenzionalmente identificata nella pronuncia del Giudice del Lavoro di Torino del 16 novembre 1999, sebbene anche prima il Mobbing avesse fatto ingresso nelle aule di tribunale, "trasversalmente".

Da allora sono trascorsi più di vent'anni, lo spazio di una generazione e ancora non c'è una legge sul Mobbing. Scelta o dimenticanza che sia, nel frattempo il vuoto normativo è stato colmato da una Giurisprudenza consolidata e dalle idee ben chiare. Al punto che l'attualità si è spinta in un certo senso oltre il Mobbing, con lo Straining e l'unicità dell'evento lesivo. Rileggere a vent'anni di distanza la prima sentenza italiana sul Mobbing è un'esperienza utile, gli elementi ci sono tutti:

- la distinzione tra Mobbing ed altre tutele tipiche, già conosciute dal nostro ordinamento, quali il demansionamento e la dequalificazione professionale.

- L'applicazione del Mobbing ad un'operaia con contratto a termine, non essendo l'istituto prerogativa dei rapporti a tempo indeterminato, né di lavoratori che svolgono necessariamente mansioni qualificate.

- Una serie concatenata di accadimenti, oggettivi e soggettivi, persecutori.

- L'insorgenza di una patologia, con il relativo nesso causale.

- Le dimissioni come unico mezzo per sfuggire a una situazione ingiusta protratta per mesi e divenuta intollerabile.

- La richiesta di risarcimento di un danno biologico, inteso comunemente come menomazione all'integrità psicofisica.

Non mancano il "bruto" della situazione, identificato in un caporeparto che bestemmia, insulta e arriva alle molestie sessuali e le segnalazioni da parte delle RSU alla Direzione aziendale, cadute nel vuoto. Fino alla macchina infernale, cui era adibita la lavoratrice, "collocata in uno spazio assai angusto ed è ristretta fra due enormi macchine, così da non consentire al prestatore, che ne è addetto, alcun contratto con l'ambiente esterno se non in occasione delle pause fisiologiche contrattualmente fissate in 20 minuti per ogni giornata di lavoro."

La vittima di questo primo caso di Mobbing finito in Tribunale è una donna. Un dato che rimarrà invariato per lungo tempo, visto che solo di recente – cit. un'indagine UIL del 2017 – il dato si ribalta. Oggi, il 60% dei mobbizzati è di sesso maschile.

La lavoratrice si ammala, "avendo contratto, in conseguenza delle intollerabili condizioni di lavoro e della situazione di segregazione patita, una grave forma di crisi depressiva, con frequenti stati di pianto e agorafobia, crisi senza precedenti nella sua storia personale."

"Nonostante la terapia farmacologica praticata, i sintomi lamentati non regrediscono, compromettendole definitivamente i rapporti interpersonali e sociali."

L'azienda, a questo punto, colloca la macchina in una posizione diversa e meno opprimente rispetto a quella esistente all'epoca dei fatti di causa. Ma è troppo tardi.

La dipendente è costretta alle dimissioni anzitempo ed è restia a cercare un nuovo impiego per la "paura di essere nuovamente inserita in ambienti lavorativi simili a quello che ha lasciato."

La lavoratrice fa causa per il risarcimento del danno biologico. .Il Giudice ritiene l'azienda responsabile ai sensi e per gli effetti dell'art. 2087 codice civile sulla tutela delle condizioni di lavoro. Una responsabilità in questo caso omissiva, per non essersi adoperato il datore di lavoro, ad "impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti."

Il Giudice del 1999 mostra una sensibilità non comune, dimostrandosi informato sul "fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing" e facendo propri i risultati di importanti studi scientifici. "Da alcuni anni – è riportato nella sentenza - gli psicologi, gli psichiatri, i medici di lavoro, i sociologi e più in generale coloro che si occupano di studiare il sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici e i suoi riflessi sulla vita del lavoratore, ne hanno individuato alcune gravi e reiterate distorsioni capaci di incidere pesantemente sulla salute individuale." Fenomeno che già all'epoca aveva assunto dimensioni preoccupanti, visto che si stimava che "oltre il 4% dell'intera forza lavoro occupata in Italia è attualmente oggetto di pratiche di mobbing."

Alcuni passaggi della sentenza del 1999 sembrano scritti oggi, tanto sono ancora validi: "il termine (Mobbing), proveniente dalla lingua inglese dal verbo to mob (attaccare, assalire) e mediato dall'etologia, si riferisce al comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo. Spesso nelle aziende accade qualcosa di simile, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette a isolarlo dall'ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, a espellerlo: pratiche il cui effetto di intaccare gravemente l'equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio."

Ma poi la sentenza mostra i suoi "anni" e cade su due aspetti fondamentali.

Il Giudice ritiene superflua la CTU medico-legale per "sostituirla" con fatti notori – che è legittimo dubitare che all'epoca fossero "così" notori -, intesi come quei fatti "acquisiti alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione alcuna in giudizio" (Cfr. art. 115 c.p.c.), visto che allora si era appena cominciato a parlare in Italia di Mobbing.

L'istruttoria è basata tutta su prove testimoniali di congiunti e colleghi e su precedenti certificati medici del medico di base e di due neurologi.

Al Giudice tocca fare anamnesi e diagnosi ed escludere tout court la sussistenza di danni permanenti, arrivando a dichiarare la paziente guarita, per il solo fatto che non lavorando più la situazione si era risolta! Come dire: se non si vuol essere più mobbizzati, basta andarsene!

Solo poche righe sopra si leggeva nelle motivazioni della sentenza tutt'altro quadro: " "la ricorrente è stata investita, nel corso del suo breve rapporto di lavoro con la società convenuta, durato complessivamente 8 mesi, da un'autentica catastrofe emotiva e, in pari tempo, che è stata colpita da sindrome ansioso-depressiva reattiva, con frequenti crisi di pianto, vertigini, senso di soffocamento e tendenza all'isolamento, sindrome protrattasi per numerosi mesi, a partire da (data omissis), e risoltasi solo a (data omissis) dopo un primo miglioramento registratosi in concomitanza con la cessazione della collaborazione."

La sentenza appare poco convincente anche nel mettere in correlazione l'incidenza rispettiva delle due cause di Mobbing in concorso tra loro: il lavorare alla macchina infernale e il subire le molestie del caporeparto, anzi proprio nell'evitare di farlo.

L'aver voluto evitare la CTU medico-legale, oggi centrale in pressocché ogni causa sul Mobbing, porta a una vittoria di Pirro per la lavoratrice.

La ricorrente perde il lavoro, ha sofferto di "disturbi e stati patologici" mai avuti in precedenza, vedendo la stessa sfera familiare stravolta, mentre prima "la sua vita, anche in ambito familiare e segnatamente nei rapporti con il marito e i due giovani figli, è stata serena e si è svolta in modo del tutto normale e regolare", per mesi dopo la cessazione del rapporto di lavoro ha avuto paura di trovare un nuovo impiego per evitare di trovarsi in una situazione analoga (tutto questo è scritto a chiare lettere nelle motivazioni della sentenza) e qual è il risarcimento che le viene riconosciuto? Dieci milioni di vecchie lire, poco più di cinquemila euro. Di più, evidentemente, non si poteva dare con la sola equità, equità integrativa; ma di cosa, senza una CTU?

Ed è forse emblematico e fa di sicuro molto riflettere che la prima sentenza italiana sul Mobbing si sia pronunciata a favore della vittima e che al contempo l'azienda, inadempiente ai suoi obblighi ex art. 2087 c.c., l'abbia scampata.

*Avvocato giuslavorista, abilitato al patrocinio in Corte di Cassazione. Autore di: "Storie di Mobbing, 89 sentenze" Iemme edizioni, 2020, con prefazione di Alberto Maggi

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