Comunitario e Internazionale

Via della seta, alcuni aspetti tecnici del mancato rinnovo del “Belt and Road Initiative”

L’attenta valutazione dei rischi ha portato l’Italia a decidere di non rinnovare l’accordo firmato a Marzo 2019

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di Andrea Sganzerla*

La Firma Del Memorandum
Era marzo 2019, in carica il primo governo Conte, quando il presidente cinese Xi Jinping si è recato in visita di Stato in Italia durante la quale è stato sottoscritto il “memorandum d’intesa” -Memorandum of Understanding (MoU) - chiamato Belt and Road Initiative (BRI) tra i due Paesi. Questo memorandum, va detto, non aveva un valore di accordo internazionale e dunque non prevedeva impegni vincolanti da un punto di vista giuridico, ma individuava alcuni principi e modalità di collaborazione per la realizzazione della nuova via della seta.

All’epoca altri 14 Paesi dell’Unione Europea hanno sottoscritto l’accordo, il Portogallo unico stato dell’Europa occidentale insieme all’Italia. Poi Croazia, Bulgaria, Grecia, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Ungheria, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Slovenia. Molti di più i Paesi in Asia, Africa e nella zona del Medioriente che avevano siglato un accordo simile con la Cina, ma l’Italia era il primo Paese del G7 a farlo ed oggi la prima ad uscirne. La Belt and Road Initiative era ed è un piano ambizioso per sviluppare nuove rotte commerciali che colleghino la Cina al resto del mondo. Fina dal 2013 il presidente cinese Xi aveva annunciato la volontà di costruire un adattamento moderno delle antiche rotte commerciali della via della seta, dando vita a una rete di ferrovie, porti, oleodotti, reti elettriche autostrade per trasportare merci tra oriente e Occidente. Questa iniziativa va oltre le infrastrutture: è un progetto che vuole sviluppare un mercato allargato e interdipendente, accrescere il potere economico e politico della Cina e creare le condizioni giuste per costruire un’economia tecnologicamente avanzata.

Le Opportunità e i rischi
L’accordo con l’Italia doveva promuovere la cooperazione bilaterale in sei diverse aree, tra cui i trasporti e le infrastrutture, il commercio, la cooperazione finanziaria, la connettività tra le persone e la cooperazione allo sviluppo verde. Pur non essendo giuridicamente vincolante, la firma del protocollo ha rappresentato un evento profondamente simbolico nella storia recente della politica estera italiana.

Fin da subito però l’adesione dell’Italia ha suscitato preoccupazioni in alcuni governi europei e in quello degli Stati Uniti ed è stata contestata anche da partiti di opposizione italiani con riferimento a possibili ripercussioni sulle tradizionali alleanze occidentali. Tra le altre cose le preoccupazioni hanno riguardato la mancanza di chiarezza sugli obiettivi del progetto e la partecipazione esclusiva di attori economici cinesi, avendo da sempre la Cina una visione espansiva lucida e di lungo periodo. Inoltre, mentre i mercati europei sono aperti quello cinese lo è solo parzialmente, consentendo agli stranieri solo investimenti greenfield (costituzione di nuove società) e precludendo invece la scalata di società cinesi. Senza contare, ovviamente, il tema dei diritti (privative industriali, lavoro etc.) e il rischio geopolitico che la Cina possa arrivare a controllare infrastrutture essenziali e strategiche del Paese.

A tale proposito va comunque detto che l’esigenza di introdurre una regolamentazione che consentisse di impedire gli investimenti diretti esteri, specie da parte di Fondi Sovrani (fondi di investimento che dipendono direttamente da stati esteri) o di società a controllo pubblico stranieri, in Italia era comunque stata avvertita già più di dieci anni or sono quando si era provveduto con la promulgazione della legge 11 maggio 2012, n. 56 (così come modificata dalla legge 4 dicembre 2017, n. 172), che consente al Governo di esercitare poteri speciali ( golden powers ) in caso di investimenti esteri diretti nei comparti della difesa e sicurezza nazionale, energia, trasporti, telecomunicazioni e nei settori ad alta intensità tecnologica (infrastrutture o tecnologie critiche o sensibili).

Tali poteri speciali includono quello di esercitare il diritto di veto o di imporre impegni diretti agli acquirenti in caso di acquisizione di partecipazioni in imprese strategiche ove sussista la minaccia di grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti.

Analogamente la UE – cui ai sensi dell’art. 207 TFUE spetta la competenza esclusiva in materia di investimenti diretti esteri di paesi terzi – sta cercando di definire il quadro normativo entro cui gli stessi possono essere sindacati dai paesi membri (Comunicazione “Accogliere con favore gli investimenti esteri diretti tutelando nel contempo gli interessi fondamentali”, [COM(2017)494], Proposta di Regolamento che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione europea [COM(2017)487].

Al di là di ciò, per quanto riguarda il panorama industriale italiano più in generale, osserviamo però come dal 2008 ben 168 gruppi cinesi avevano acquisito imprese italiane per 22 Miliardi di dollari (mentre le imprese italiane hanno investito in Cina solo 300 milioni di dollari). Le imprese italiane a partecipazione cinese attualmente sono circa il 7%, e nel 90% dei casi tali imprese sono a controllo cinese.

I cinesi hanno investito nello scalo di Vado Ligure, hanno acquisito il 40% di Ansaldo Energia, il 30% di Snam e di Terna, la Pirelli (salvo uscirne recentemente proprio in conseguenza dell’utilizzo del golden power), e il Gruppo Ferretti, nella moda hanno acquisito Sergio Tacchini e Krizia, nel settore della meccanica Matermacc, Arbos e Goldoni, per citare solo alcuni tra i più noti investimenti.

Cosa è cambiato dunque con l’accordo BRI?
Al momento l’intesa firmata nel 2019 tra Italia e Cina non ha portato a particolari conseguenze concrete in quanto molti accordi, come abbiamo visto erano già preesistenti ed il Memorandum ha costituito solo un cappello formale a collaborazioni già in essere.

Per esempio l’aumento delle esportazioni, annunciato come uno dei principali benefici per l’Italia, non sembra aver rispettato le attese, almeno se confrontato ai numeri delle importazioni dal paese asiatico. Le esportazioni italiane in Cina sono cresciute dai 13 miliardi di euro del 2019 ai 16,4 miliardi di euro del 2022, ma parallelamente le importazioni di merce cinese hanno registrato un aumento più marcato, passando dai 31,7 miliardi a 57,5 miliardi in pochi anni.

Negli ultimi 10 anni sono stati investiti in Italia 16 miliardi di euro dalla Cina. Guardando all’Europa, questo è un risultato inferiore rispetto a paesi come il Regno Unito (51,9 miliardi) e la Germania (24,8 miliardi), che non hanno mai aderito formalmente alla BRI.
L’adesione italiana all’iniziativa cinese non ha quindi avuto un reale impatto sulle relazioni economiche tra Cina e Italia (paradossalmente la Francia ha firmato accordi commerciali più consistenti rispetto all’Italia, pur non essendo parte della BRI).

I porti italiani nel mirino
Se dunque i vantaggi commerciali negli scambi per l’Italia non sembrano aver goduto di una particolare accelerazione nella cooperazione economica, al centro del Memorandum spiccano i rischi per i progetti infrastrutturali: soprattutto per quanto riguarda i dossier portuali , con riferimento al porto di Trieste, soprattutto a partire dai recenti sviluppi sull’asse Italia- Germania- Cina. La tedesca Hamburger Hafen und Logistik, legata alla città di Amburgo, è socio di maggioranza del terminal Piattaforma logistica Trieste (Plt). Ma l’azienda tedesca, nello scorso autunno, ha fatto entrare la cinese Cosco nel suo capitale, con un accordo ancora da confermare. La stessa Cosco si è fatta avanti per le aree ex Ilva di Genova. Cosco è stata attiva anche a Vado Ligure, già prima dell’ingresso italiano nella Bri. In questo come in casi analoghi possiamo dire che il memorandum non ha avuto particolare impatto positivo, anzi ha attirato i riflettori, ostacolando i progetti.

Conclusioni
La BRI è stata spesso descritta come una sorta di “contenitore strategico” in cui è possibile inserire praticamente di tutto: in altre parole, rappresenta un’iniziativa politica con obiettivi strategici a lungo termine.

Il 2023 si è rivelato cruciale e l’attenta valutazione dei rischi ha portato l’Italia a decidere di non rinnovare l’accordo firmato a Marzo 2019.

Alla luce di quanto detto, il fatto che il mancato rinnovo dell’accordo occupi oggi un ruolo centrale nel dibattito italiano è piuttosto incomprensibile, considerando la sua portata limitata.

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*A cura del Avv. Prof. Andrea Sganzerla

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