Comunitario e Internazionale

Violenza in struttura pubblica, legittima anche l’assoluzione

Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell'uomo con la sentenza depositata l'11 maggio nel ricorso n. 44166/15

di Marina Castellaneta

Nei casi di violenza all’interno di una struttura pubblica, gli Stati sono tenuti a svolgere inchieste e procedimenti giudiziari, in particolare di natura penale, per accertare se è stato violato il diritto alla vita, ma non hanno un obbligo di risultato. Pertanto, non si verifica una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo se gli imputati vengono assolti perché ciò che conta è avere messo in campo misure necessarie e adeguate per lo svolgimento dell’indagine e del procedimento giudiziario. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell'uomo con la sentenza depositata l'11 maggio nel ricorso n. 44166/15 che ha visto “assolta” l’Italia dalla violazione dell’articolo 2 della Convenzione, che assicura il diritto alla vita sia sotto il profilo sostanziale che procedurale e impone agli Stati obblighi positivi.

La vicenda aveva al centro un caso di violenza familiare e il ricorso a Strasburgo è stato presentato dalla madre di un bambino che era stato ucciso dal padre durante un incontro protetto in una struttura pubblica. La donna, già in precedenza, aveva presentato diverse denunce e il bambino era seguito dai servizi sociali. Nel corso di un incontro protetto, però, l’uomo aveva accoltellato il bambino e si era poi ucciso.

Era stata aperta un’inchiesta, ma i dipendenti della struttura erano stati assolti. Di qui l’azione dinanzi alla Corte europea che, però, ha respinto il ricorso.

Per Strasburgo non c’è dubbio che il minore si trovasse sotto la responsabilità esclusiva dello Stato e che, in via generale, in questi casi, la risposta giudiziaria deve essere di carattere penale. L’Italia, per la Corte aveva preso le misure necessarie per accertare la responsabilità degli imputati e aveva acquisito testimonianze e prove, svolgendo analisi scientifiche e tossicologiche. Inoltre, il processo, in totale, era durato quattro anni per tre gradi di giurisdizione e, quindi, ad avviso della Corte europea, è stato rispettato l’obbligo di garantire una tutela dell’articolo 2 della Convenzione con riferimento al profilo procedurale.

D’altra parte, precisano i giudici internazionali, lo Stato è tenuto a un obbligo di condotta poiché deve disporre delle misure necessarie all’individuazione del colpevole, ma non ha un obbligo di risultato. Pertanto, malgrado la gravità delle accuse se l’esito è di assoluzione non si può, unicamente per tale aspetto, concludere che il processo penale non sia stato conforme a quanto richiesto dall’articolo 2 della Convenzione. Per la violazione del profilo sostanziale dell’articolo 2, la Corte ha dichiarato irricevibile il ricorso ritenendo che, a seguito dell’indennizzo per danni non patrimoniali ottenuto in sede civile, la ricorrente non potesse essere qualificata come vittima ai sensi della Convenzione.

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