Penale

41 bis, costituzionale la competenza al ministero

Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza 5363/2023 della Prima sezione penale, depositata ieri

di Giovanni Negri

Il 41 bis non equivale a una misura di prevenzione. E quindi la competenza del ministro della Giustizia, e non dell’autorità giudiziaria, nel disporne l’applicazione non può essere censurata. Tanto meno sul piano costituzionale. Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza 5363/2023 della Prima sezione penale, depositata ieri. La pronuncia interviene così su una materia tradizionalmente delicata, oggi ancora di più per lo scontro politico intorno al caso Cospito.

La vicenda giudiziaria riguarda la sottoposizione al regime detentivo del 41 bis di un detenuto considerato il referente locale della cosca mafiosa insediata a Mazara del Vallo. La difesa, nel contestare l’applicazione della norma restrittiva, aveva tra l’altro messo in evidenza l’analogia tra la misura in questione e quelle di prevenzione personale. Illegittimo sarebbe quindi, sul piano costituzionale, assegnare la competenza sull’applicazione al ministro, espressione del potere politico, e non alla magistratura.

La Cassazione, tuttavia, torna a ricordare la fondamentale distinzione tra l’istituto del 41 bis e la misura di prevenzione in senso stretto. Sotto il profilo della giustificazione, l’articolo 41 bis attesta la ricorrenza di condizioni oggettive di emergenza e sicurezza pubbliche ed altre soggettive che riguardano il detenuto, che derivano dalla condanna per reati di particolare gravità e allarme sociale, oltre che la persistente esistenza e operatività dell’organizzazione di appartenenza.

Le misure di prevenzione, invece, vengono imposte per fronteggiare il rischio della commissione di reati nei confronti di chi è ritenuto pericoloso per effetto, non tanto e non solo di misure cautelari, ma dello stile di vita.

Anche negli effetti va considerato che la sospensione delle regole detentive ordinarie riguarda l’esecuzione della pena nei confronti di quei detenuti che fanno temere la capacità di conservare collegamenti con le organizzazioni criminali di appartenenza e di trasmettere ordini e direttive fuori dal carcere. Con la conseguenza di condurre a una limitazione dei diritti soggettivi e non alla loro soppressione.

Non esiste poi, avverte la sentenza, un’automatismo tra condanna per alcuni tipi di reato e regime carcerario, ma la decisione viene presa selettivamente con riferimento a detenuti con particolari indici di pericolosità. Lo stesso diritto di difesa appare assicurato dalla possibilità di impugnare il provvedimento del ministro della Giustizia sia in sede di prima irrogazione sia poi per eventuali e successive conferme.

E sempre sul 41 bis, la Cassazione accoglie il ricorso del ministero della Giustizia e nega al detenuto la possibilità di accesso anche al canale televisivo Tv8 . La Corte, con la sentenza 5361/2023, sempre della Prima sezione penale, smentisce quindi il provvedimento del tribunale di sorveglianza che aveva aperto alla visione di un canale non espressamente inserito tra quelli presi in considerazione dalla circolare del Dap del 2 ottobre 2017. Per il tribunale, il divieto era in conflitto con il diritto all’informazione del detenuto e non esistevano riscontri sull’impiego del canale televisivo per veicolare messaggi all’esterno nè per ricevere informazioni dall’organizzazione criminale di riferimento. Per la Cassazione, invece, non esiste una lesione di diritti soggettivi e neppure un fatto attuale e grave che legittimi l’intervento del magistrato di sorveglianza. La valutazione, piuttosto, va fatta tenendo presente il “pacchetto” informativo comunque a disposizione anche di chi è sottoposto al 41 bis, che risulta, nella lettura della Corte, più che sufficiente anche sul piano della disponibilità di altri canali televisivi.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©