Legittima l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, le motivazioni della Consulta
Per la Corte costituzionale (sentenza numero 95 depositata oggi) l’abrogazione non contrasta con la Convenzione di Mérida
L’abrogazione del reato di abuso di ufficio da parte del legislatore italiano non contrasta con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Mérida); e la Corte costituzionale non può sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante da tale abrogazione, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore. Lo scrive la Corte costituzionale nelle motivazioni, depositate oggi (sentenza numero 95), della decisione già preannunciata lo scorso 8 maggio, con cui sono state ritenute non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici giudici, tra cui la Corte di cassazione, contro l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio ad opera della legge numero 114 del 2024.
La Corte ha ritenuto ammissibili le questioni che i giudici rimettenti avevano formulato con riferimento all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, che condiziona l’esercizio della potestà legislativa al rispetto degli obblighi internazionali, tra cui quelli derivanti da convenzioni internazionali ratificate dall’Italia. Se una convenzione dovesse effettivamente prevedere l’obbligo, per il legislatore nazionale, di prevedere come reato una certa condotta, la Corte ben potrebbe dichiarare l’illegittimità della legge che abbia abrogato quel reato, violando l’obbligo assunto dallo Stato in sede internazionale. L’effetto della pronuncia della Corte sarebbe, in tal caso, quello di ripristinare la legge in precedenza in vigore.
Nel merito, la Corte – dopo aver dettagliatamente esaminato tutte le norme della Convenzione di Mérida invocate dai giudici rimettenti – ha però escluso che da esse possa ricavarsi un obbligo di prevedere come reato le condotte di abuso di ufficio, reato che peraltro non è uniformemente presente in tutti gli ordinamenti penali degli Stati firmatari.
I giudici rimettenti avevano anche sostenuto che la scelta del legislatore si sia posta in contrasto con il principio di uguaglianza, tutelato dall’articolo 3 della Costituzione, dal momento che il legislatore avrebbe lasciato irragionevolmente prive di sanzione penale condotte più gravi di altre, che continuano anche oggi a essere qualificate come reati. Inoltre, le ordinanze di rimessione avevano sottolineato il vuoto di tutela che, per effetto dell’abrogazione, si sarebbe creato rispetto a condotte gravemente dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, sanciti dall’articolo 97 della Costituzione.
Queste due ultime censure sono però state dichiarate inammissibili, sulla base della costante giurisprudenza della Corte che ritiene precluso l’esame di questioni di legittimità costituzionale formulate sulla base degli articoli 3 o 97 della Costituzione, quando il loro accoglimento produrrebbe un effetto “in malam partem”, e cioè espansivo della punibilità.
In definitiva, ha concluso la Corte, “se gli indubbi vuoti di tutela penale che derivano dall’abolizione del reato (…) possano ritenersi o meno compensati dai benefici che il legislatore si è ripromesso di ottenere, secondo quanto puntualmente illustrato nei lavori preparatori della riforma, è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile innanzi a questa Corte al metro dei parametri costituzionali e internazionali esaminati”.