Penale

"Violazione della custodia" per il giornalista che copia provvedimenti giudiziari segreti

Commette il reato di "Violazione della pubblica custodia di cose" il giornalista che faccia copia di provvedimenti giudiziari tutelati dal segreto. Né rileva l'eventuale complicità del magistrato o comunque di un pubblico ufficiale. La Cassazione, sentenza n. 15838 di ieri, ha così confermato la condanna a un anno di reclusione (pena sospesa) nei confronti di un giornalista di "Repubblica" che nel 2010 aveva pubblicato un dettagliato articolo sull'inchiesta condotta dalla Procura di Trani sul cosiddetto "caso Rai-Agcom" in cui figurava come indagato Silvio Berlusconi, all'epoca Presidente del Consiglio dei ministri, per supposte pressioni volte a ottenere la chiusura del programma televisivo "Anno Zero" di Michele Santoro.

La condotta contestata al ricorrente, ricostruisce la sentenza, è consistita nella «sottrazione dagli uffici giudiziari di Trani di una richiesta formulata dal P.M. circa l'autorizzazione all'utilizzazione di comunicazioni e conversazioni di un parlamentare intercettate nel corso di un procedimento riguardante terzi e, in parte, distruzione di altre conversazioni ritenute irrilevanti, che veniva fotocopiata e subito dopo riposta all'interno della stanza del magistrato». «Poiché la P.A. - prosegue la decisione - subentra nel potere-dovere di prendere in custodia e di conservare la documentazione nel momento in cui l'ufficio la riceve, ogni abusiva manomissione di questa da chiunque effettuata viola il bene giuridico protetto dalla norma». Per cui «qualora sia stata ispirata dallo scopo di violare la pubblica custodia dei documenti per conoscerne il contenuto, che doveva invece rimanere segreto, l'appropriazione seppure temporanea - deve essere inquadrata nella specie criminosa di cui all'art. 351 cod. pen.».

La Cassazione poi aggiunge che «se nella maggior parte delle ipotesi tale illecito viene commesso da soggetti estranei alla P.A., ciò non esclude che lo stesso possa essere realizzato da un intraneo». Una tale evenienza è stata comunque esclusa da parte dei giudici di merito che hanno negato che al momento della apprensione de documento (e della successiva restituzione) vi fossero altri soggetti all'interno dell'ufficio. ln ogni caso, conclude la decisione, «la circostanza che il magistrato non fosse stato visto rientrare ed uscire dalla stanza in epoca contestuale alla restituzione del documento (a cagione del sensore di movimento contenuto nell'impianto di videosorveglianza), non assume alcun rilievo ai fini dell'integrazione del reato che non viene meno con l'eventuale concorso del pubblico ufficiale» (circostanza che rende evidente l'infruttuosa deduzione del ricorrente che ipotizza il possibile, ma smentito, concorso del pubblico ufficiale).

Infine, riguardo alla acquisizione delle immagine dal circuito di videosorveglianza, la Cassazione precisa che «parlare, di "copia" di una riproduzione di sequenze di immagini di una scena di vita reale, laddove la videoregistrazione risulta essere ex se già una "copia" riproduzione degli accadimenti … è operazione meramente lessicale». Certamente più corretto quindi è parlare di «trasferimento ovvero estrapolazione dei documenti in formato digitale». Fatta questa «necessaria» premessa, la Corte conclude che i «file che riproducono le videoriprese effettuate per mezzo di impianti di videosorveglianza posti a tutela di uffici pubblici risultano essere dei documenti la cui acquisizione è regolamentata dall'art. 234 cod. pen», sulla "prova documentale".

Corte di cassazione - Sentenza 10 aprile 2019 n. 15838

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