Penale

La Consulta incrina il muro dell’ergastolo senza benefici

di Giovanni Negri

Una crepa nel muro dell’ergastolo ostativo. Se diventerà una voragine si vedrà. Intanto la Corte costituzionale con una sentenza, le cui motivazioni saranno depositate tra qualche tempo, ma i cui contenuti sono stati anticipati ieri, ha aperto alla possibilità che anche il condannato al carcere a vita per reati di mafia possa usufruire di permessi premio. Sempre che «abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo». Allarmata la reazione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per il quale «la questione è della massima importanza» e ne vanno analizzate con attenzione le conseguenze.

Solo pochi giorni fa, l’8 ottobre, la Corte dei diritti dell’uomo aveva respinto il ricorso del Governo italiano contro la pronuncia del 13 giugno con la quale era stata giudicata in contrasto con la Convenzione dei dritti dell’uomo la norma che impedisce, sempre e comunque, l’accesso a benefici alternativi al carcere per chi condannato per reati legati alla criminalità organizzata, ha sempre rifiutato la collaborazione.

Ieri la Consulta, decidendo su questioni sollevate dalla Cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, ha dichiarato l’illegittimità dell articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui esclude la concessione di permessi premio per chi non collabora con magistratura e forze investigative, anche se sono stati acquisiti elementi che escludono sia l’attualità della partecipazione all’organizzazione criminale, sia il pericolo che vengano riallacciati rapporti con la stessa.

Un recupero di margini di discrezionalità, quindi, per la magistratura di sorveglianza, nel segno di una presunzione che da assoluta si fa relativa, cioè con possibilità di essere incrinata sulla base della documentazione acquisita dalle relazioni dell’amministrazione penitenziaria, da informazioni e pareri di altri organismi come la Procura antimafia e il Comitato provinciale per ordine e sicurezza pubblica.

La questione è stata, ed è, assai divisiva tra gli stessi pubblici ministeri. Con il fronte della più esposta magistratura antimafia arroccato a difesa di un meccanismo, storicamente giustificato, e di non perduta attualità, dal Procuratore Antimafia Federico Cafiero De Raho a Piero Grasso e Giancarlo Caselli, e altri come Gherardo Colombo che sostengono la necessità di una detenzione in linea con la funzione della pena delineata dalla Costituzione.

A sintetizzare le posizioni il rovente botta e risposta di ieri sera tra il consigliere del Csm, storico Pm palermitano, Nino di Matteo e il presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza. Di Matteo chiama la politica a un’assunzione di responsabilità per «evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo», Ma Caiazza contesta la «straordinaria gravità» delle dichiarazioni di Di Matteo: «egli non si limita ad esprimere un dissenso rispetto ad una decisione del giudice delle leggi, ma si spinge a chiedere che il legislatore in qualche modo adotti contromisure per vanificare quella decisione».

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