Professione e Mercato

Arrivano i fondi che investono sulle controversie

di Michela Finizio

Arbitrati internazionali, procedimenti nei confronti dello Stato italiano, recupero crediti da parte di società fallite, esecuzione di sentenze all’estero. Sono queste le tre principali tipologie di contenzioso sostenute finora dai fondi che hanno scelto le liti italiane come asset di investimento. Pochi casi, ad oggi isolati e sperimentali, ma che di fatto aprono le porte della giustizia italiana a realtà internazionali, come Therium, Burford Capital, Harbour, Imf Bentham e Omni Bridgeway. Tanto da costringere studi legali e camere arbitrali ad attrezzarsi per “gestire” l’eventuale ingresso nel contenzioso di un soggetto terzo finanziatore.

Cresce l’interesse dei fondi

Il litigation funding attira i big internazionali che hanno scelto di estendere i loro affari ai paesi del Mediterraneo. Therium, ad esempio, dopo il successo in Spagna, sta studiando un modello per entrare nel contenzioso italiano, conoscendo bene le criticità dei tempi della giustizia nel nostro Paese. «I tribunali ordinari in Italia hanno tempi troppo lunghi - afferma Oliver Novick di Therium Capital Management - per questo motivo in Italia abbiamo iniziato sostenendo tre arbitrati internazionali. Uno era in corso, ma per procedere era necessario spendere molto di più. Stiamo cercando di essere presenti su Milano e Roma, ma anche in una ventina di città minori tra cui alcune del Veneto». Finora Therium a livello globale ha chiuso circa 150 accordi per finanziare contenziosi corrispondenti a richieste di danni per circa 36 miliardi di dollari. «In un terzo dei casi sostenuti finora - conclude Novick - abbiamo vinto, in un altro terzo abbiamo perso. Gli altri casi si sono chiusi con accordi prima della sentenza».

I contenziosi nel mirino

Tra le realtà interessate a investire in contenziosi nel nostro Paese ci sono fondi anglo-americani, ma anche «un paio di realtà italiane, diverse per approccio ma che stanno valutando l’eventuale ingresso in questo mercato», afferma Luciano Castelli, partner di Lca studio legale. «Ci sono venture capitalist che si stanno informando per valutare o meno l’apertura di un fondo specializzato. E ci sono anche piccole realtà che dimostrano interesse, senza essere strutturate, ma pronte a mettere sul piatto anche 40-50 mila euro davanti alla promessa di ritorni molto significativi», aggiunge Castelli.

Il third party funding diventa un’opportunità quando i costi del contenzioso diventano troppo elevati per le parti in causa, ma anche quando l’ufficio legale di una multinazionale - ad esempio - termina il budget destinato alle liti o preferisce allocare le risorse altrove. Diventa fondamentale, poi, quando in tribunale finisce un soggetto fallito, che non può rivalersi. Oppure quando in tribunale va in scena “Davide contro Golia”, ma in questi casi può diventare più difficile fornire tutte le garanzie richieste dal finanziatore.

C’è stato un forte interessamento, ad esempio, da parte di più fondi al recente caso dell’Italplan di Arezzo, società di engineering toscana fallita nel 2016: il tribunale locale le ha riconosciuto il diritto a vedersi riconoscere dallo stato brasiliano il compenso di 250 milioni di euro pattuito per lo studio di fattibilità del treno ad alta velocità Trem bala che avrebbe dovuto collegare Rio de Janeiro a San Paolo. Il progetto è finito su un binario morto così come il riconoscimento economico, mai versato alla società. «Le piccole e medie imprese - dice il partner di Lca studio legale - spesso non possono permettersi di attivare procedimenti internazionali, costosi e complicati, e decidono di rinunciare alle loro richieste».

A livello internazionale, nel frattempo, sono stati sostenuti da fondi specializzati diversi contenziosi che hanno conquistato le prime pagine dei giornali: quello tra il governo argentino e un ex azionista della compagnia elettrica Ypf; la causa degli azionisti contro la Royal Bank of Scotland e quella contro Lloyds, relativa al piano di salvataggio di Hbos; la causa collettiva contro Volkswagen per il dieselgate; la controversia di Terry Bollea, il noto wrestler Hulk Hogan, contro Gawker Media; l’esecuzione della sentenza che riconosce all’ex moglie dell’oligarca russo Farkhad Akhmedov il diritto di ricevere mezzo miliardo di euro.

Le quattro regole

La selezione degli investitori, infatti, è molto severa: per intercettare l’interesse di un fondo internazionale la causa deve avere almeno quattro caratteristiche.

1Innanzitutto, il contenzioso deve essere di una certa entità economica. «In Europa finora- afferma Novick di Therium - abbiamo sostenuto cause da 1 a 3 milioni di euro in media, ma c’è stato anche un investimento da soli 200mila euro».

2I fondi richiedono una buona probabilità di successo, almeno tra il 60-70 per cento. Per questo è necessario svolgere una due diligence molto accurata, grazie alla quale i finanziatori devono avere un’idea chiara circa l’esito della controversia.

3La controparte deve essere solvibile. Per questo può essere richiesta l’analisi del piano finanziario della società e se emerge qualche dubbio l’affare non si conclude.

4I tempi devono essere prevedibili, non necessariamente brevi. «Abbiamo seguito - racconta per esempio l’avvocato del fondo Therium - il fallimento di una società nel 2008 che solo l’anno scorso, dopo anni, ha perso e ha deciso di fare appello. In questi casi è meglio attivare il finanziamento già 4-5 anni dopo il fallimento oppure quando già inizia la fase di ristrutturazione».

I primi passi in Italia

Per ora il banco di prova per il litigation funding in Italia è quello degli arbitrati, segmento capace di rispondere a queste caratteristiche, soprattutto per i costi che si devono sostenere, ad esempio nella consulenza tecnica esterna. Peccato che l’ultima legislazione di riferimento degli arbitrati risalga al 2006. Tanto che la stessa Camera arbitrale di Milano ha deciso di intervenire definendo la prassi da adottare quando in un arbitrato istituzionale entra un finanziatore terzo: il nuovo regolamento entrato in vigore lo scorso 1 marzo introduce l’obbligo di dichiararlo, estendendo la disclosure che già riguarda l’arbitro anche all’investitore.

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