Penale

Intercettazioni: “captatori informatici” anche nei luoghi privati solo per reati di criminalità organizzata

di Paolo Giordano

In materia di intercettazioni, solo in caso di reati di “criminalità organizzata”, è consentito l’utilizzo di “captatori informatici” anche nei luoghi di privata dimora. Lo hanno stabilito le sezioni Unite con la sentenza n. 26889 del 1 luglio 2016.

Una sentenza memorabile - La sentenza in commento è destinata, come la celebre sentenza sempre delle S.U. n. 26795 del 2006, pres. Marvulli, Relatore G. Lattanzi, sulle intercettazioni ambientali in ambito privato, a divenire memorabile perché affronta due importanti questioni, una delle quali del tutto innovativa, e perché ha adottato un percorso argomentativo e una struttura logica assolutamente pregevoli.

Le due questioni riguardano, la prima l'ammissibilità dell'intercettazione mediante “virus informatico”, o “virus spia” o “autoistallante”, o “troyan horse” o, come lo definisce la sentenza in commento con una parola elegante ed evocativa, “captatore informatico” o infine “agente intrusore”, la seconda la messa a fuoco della nozione di criminalità organizzata.

Nella comunicazione dell'informazione provvisoria, l'ammissibilità dello strumento cennato è sancita indipendentemente dai luoghi in cui viene usato, sempreché si tratti di procedimenti di criminalità organizzata, con la sottolineatura che l'indicazione del luogo in cui si svolge la conversazione in queste tipologie di indagini non costituisce un requisito del decreto autorizzativo dell'intercettazione. La Procura Generale, nelle sue conclusioni, aveva accolto la tesi più restrittiva della nozione di criminalità organizzata, mentre le S.U. hanno preferito accreditare la nozione più ampia, collocandosi nella scia della sua tradizione giurisprudenziale, con gli effetti di ampliare il raggio di azione dello strumento captativo esaminato.

Il captatore informatico - La prima questione riguarda la legittimità delle intercettazioni eseguite attraverso l'installazione da remoto di un virus che in effetti è un captatore informatico su computer o su smartphone. In precedenza, la VI Sezione della Corte di cassazione (Cass. Sez. VI, 26.5.2015, n. 27100) aveva stabilito che l'intercettazione da remoto delle conversazioni tra presenti mediante l'attivazione, tramite il c.d. “agente intrusore informatico”, del microfono di un apparecchio telefonico smartphone, rientra nella categoria delle intercettazioni ambientali con la conseguenza dei limiti e delle condizioni previsti per tale tipologia. In tale pronuncia, la Corte aveva sottolineato come le intercettazioni mediante “captatore informatico” consentissero di captare conversazioni tra presenti in una varietà di luoghi, a seconda degli spostamenti del soggetto, di fatto senza alcuna limitazione di luogo. Perciò aveva adottato la tesi restrittiva, escludendo che le captazioni ambientali potessero essere eseguite “ovunque il soggetto si sposti”.

L'argomento su cui si fondava la detta pronuncia era l'affermazione della tesi costituzionalmente orientata, in relazione ai principi dell'inviolabilità della libertà e della segretezza di ogni forma di comunicazione, di cui agli articoli 13 e 15 della Costituzione e 8 CEDU. La Corte aveva ritenuto ammissibili le intercettazioni ambientali sempreché autorizzate con riferimento a luoghi ben individuati e circoscritti, sicché la mancanza nel decreto autorizzativo di tali indicazioni, avrebbe determinato l'illegittimità del provvedimento e quindi l'inutilizzabilità delle captazioni tra presenti, questa è la tesi della sentenza ora citata. La stessa VI Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza del 10 marzo 2016, n. 13884, ritenendo non condivisibili gli argomenti della sentenza del 2015, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, essendosi profilato un contrasto.
I quesiti erano i seguenti:

• se il decreto che dispone l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni attraverso l'installazione in congegni elettronici di un virus informatico debba indicare, a pena di inutilizzabilità dei relativi risultati, i luoghi ove deve avvenire la relativa captazione;
• se, in mancanza di tale indicazione, la eventuale sanzione di inutilizzabilità riguardi in concreto solo le captazioni che avvengano in luoghi di privata dimora al di fuori dei presupposti indicati dall'art. 266, comma 2, cod. proc. pen.;
• se possa comunque prescindersi da tale indicazione nel caso in cui l'intercettazione per mezzo di virus informatico sia disposta in un procedimento relativo a delitti di criminalità organizzata.”

Il caso affrontato dalle Sezioni Unite era scaturito da un provvedimento del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Palermo, che aveva autorizzato le intercettazioni ambientali mediante captatore informatico disponendo che queste dovevano eseguirsi “nei luoghi in cui si trova il dispositivo elettronico” in uso all'indagato. La questione è pervenuta alle Sezioni Unite sul ricorso della difesa la quale aveva dedotto, tra gli altri motivi, l'illegittimità del decreto autorizzativo perché emesso in violazione dei limiti imposti dall'art. 266, c. 2, c.p.p. e perché privo di un riferimento specifico ai luoghi, con conseguente richiesta di pronuncia di inutilizzabilità del contenuto delle conversazioni relative.

Nella parte in diritto - Nella parte in diritto la Corte ha ritenuto di doversi discostare dalle argomentazioni e dalla tesi sostenuta nella precedente pronuncia del 2015, con un percorso argomentativo molto interessante e assolutamente convincente.
La Cassazione ha qualificato giustamente il mezzo di cui stiamo parlando come caratterizzato dalla vastità delle acquisizioni e dalla particolare invasività dello strumento, dal momento che il captatore non solo è in grado di intercettare le conversazioni ma addirittura può captare immagini e riprese, in quanto attraverso un software collocato all'interno del dispositivo elettronico, viene a eseguirsi un'intercettazione ambientale attraverso il controllo occulto del microfono trasformato in una cimice informatica. La particolare invasività deriva dal fatto che attraverso lo speciale congegno in questione è possibile non solo attivare il microfono e una speciale web camera, ma anche captare tutto il traffico dati o in partenza dal dispositivo infettato, e infine perquisire l'hard disk facendo copia delle varie unità di memoria del sistema informatico attinto, decifrare tutto ciò che viene digitato sulla tastiera collegata al sistema e visualizzare ciò che appare nello schermo del dispositivo. Tutto questo complesso di dati viene trasmesso tramite la rete internet a un altro sistema informatico ricevente, quello degli investigatori in campo.

Sul piano tecnico e giuridico - Sul piano tecnico e giuridico la Cassazione ha dichiarato in apertura l'incompatibilità tecnica dell'intrusore informatico con la necessità di indicare in via preventiva i luoghi in cui dovranno essere captate le conversazioni. Il motivo è semplice: se l'intrusore segue il mezzo preso di mira, ciò vuol dire che può essere oggetto di captazione tutto ciò che viene all'orizzonte dell'apparato (computer o quant'altro) oggetto dell'intrusione, in quanto il soggetto intercettato si muove.

Pertanto il problema messo a fuoco è di valutare se l'ordinamento giuridico prescinde dalla determinazione del luogo nella disciplina delle intercettazioni o se invece tale determinazione sia richiesta. E qui interviene subito un argomento tranciante, cioè che l'indicazione del luogo non solo non è richiesta dalla normativa sulle intercettazioni, ma addirittura non è mai stata considerata un requisito nemmeno dalla Corte di giustizia europea. Quindi la questione del luogo riguarda solo le intercettazioni ambientali ordinarie, cioè quelle previste dal c.p.p. non quelle contemplate dalla normativa speciale sulla criminalità organizzata, ex art. 13 l. n. 152 del 1991.

La differenza è nota: nelle prime occorre l'ulteriore requisito dell'attualità dell'attività criminosa in itinere, nelle altre l'intercettazione è possibile senza tale presupposto. Questo è il motivo per cui si deve precisare il luogo solo quando l'intercettazione deve svolgersi negli ambienti di privata dimora.

A un certo momento, la Corte tra le righe lancia un monito chiarissimo, cioè l'eccessiva invasività non ancora completamente esplorata e suscettibile di ulteriori sviluppi impone necessariamente un difficile bilanciamento con le garanzie dei diritti individuali, quasi che sia necessario oltreché opportuno calibrare l'uso dello strumento in relazione alla gravità dei reati da perseguire e alla difficoltà delle prove da raccogliere. Sta quindi all'operatore stabilire in quali casi sia opportuno e conveniente l'attivazione di questo dispositivo.

Il limite: il rispetto della dignità umana - Qui la sentenza raccoglie un importante distinguo proveniente dal Procuratore Generale, che rappresenta uno dei punti più qualificanti della sentenza, vale a dire la possibilità che il giudice, attraverso lo strumento dell'interpretazione costituzionalmente orientata e in riferimento al principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost., possa sanzionare con l'inutilizzabilità le “risultanze di specifiche intercettazioni che nella loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti abbiano acquisito in concreto connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità”. In altri termini, c'è un limite al di là del quale lo strumento invasivo non può andare ed è quello del rispetto della dignità umana del singolo inteso come persona che si relaziona con la rete delle formazioni sociali. Sarà interessante osservare come in concreto potrà essere applicato dalla giurisprudenza questo canone di valutazione e in quali casi, verosimilmente in relazione al parametro di cui all'art. 191 c.p.p.

Per avvalorare la tesi accolta, sul punto del “luogo”, la Corte richiama le pronunce della Corte costituzionale in materia ove non è mai stata dichiarata l'incostituzionalità della normativa sulle intercettazioni in relazione all'art. 14 della Cost. né è possibile rinvenire crismi di illegittimità nella Carta dei diritti fondamentali dell'U.E. sulla necessità di stabilire il luogo della captazione. E sono citate pure importanti sentenze della Corte di Strasburgo nelle quali è stato evidenziato che l'indicazione del “luogo” della conversazione non costituisce un requisito voluto dall'ordinamento.

D'altra parte, poiché il problema dell'invasività è certamente presente, devono essere prese in considerazione le importanti circolari sulle intercettazioni che le Procure Distrettuali più impegnate nel versante della criminalità organizzata, Torino, Roma, Napoli, Palermo hanno diramato per rimarcare l'indispensabilità di maggiori attenzioni non solo sui presupposti per attivare strumenti così invasivi, ma anche per discernere la rilevanza e la pertinenza delle conversazioni al tema di prova oggetto del procedimento, particolarmente a tutela dei terzi non indagati la cui sfera di libertà non è possibile intaccare ingiustificatamente mediante discovery indiscriminate.

Le tecniche comunicative nella mafia - L'invasività dello strumento captativo ora citato va a confrontarsi con le tecniche comunicative che nella criminalità organizzata sono state adottate come antidoto e difesa rispetto alla tecnologia usata nelle indagini. È sotto gli occhi di tutti che vertici e adepti dell'alta mafia usavano percorrere lunghi giri di kilometri spesso in territori accidentati prima di scambiarsi un “pizzino” dove, lontano da qualsivoglia intercettazione, con una lingua italiana e spesso dialettale, incerta e apparentemente sgrammaticata, venivano indicate prescrizioni, direttive e ordini ben precisi oltreché decisioni di conflitti fra cosche e fra soggetti.

Non solo negli scritti ma anche nelle conversazioni fra mafiosi, dentro o fuori dal carcere, i segnali, i gesti, financo il silenzio e le poche parole dosate, cifrate ed enigmatiche, ma essenziali sono stati i capisaldi delle comunicazioni, in quanto tali tipologie di comunicazioni non sono mai state esplicite, ma sempre munite di allusività e, soprattutto, richiedevano un grado di comprensione da parte dell'interlocutore. Ciò non toglie che in altre occasioni i mafiosi abbiano parlato senza alcuna “cautela” svelando i segreti dell'organizzazione. Ciò dimostra che oltre ai collaboratori di giustizia, le intercettazioni ambientali costituiscono lo strumento principe di acquisizione della prova in questi procedimenti di indagine, come sperimentano ogni giorno le strutture di eccellenza della polizia giudiziaria.

La nozione di criminalità organizzata - Sulla nozione di “criminalità organizzata”, la sentenza si allinea a una ormai consolidata scuola di pensiero elaborata dalla stessa giurisprudenza della Corte di cassazione e dalla dottrina prevalente. Su tale nozione, in passato, si sono confrontate varie tesi. In giurisprudenza, per la definizione restrittiva di “reati di criminalità organizzata”, v. Cass., sez. 1, 9/12/1992, n. 4326, Trovato, e ancora Sez. 1, sentenza n. 12136 del 3/2/2005, Rv. 231229, che propendono per un'identificazione della nozione con la disposizione di cui all'art. 407, c. 2, lett. a) c.p.p. e, secondo una linea interpretativa differenziata, con lo schema dell'art. 51 c. 3 bis c.p.p. (su cui anche Sez. V, 5.11.2003, C.E.D. Cass. n. 207364). Una parte della dottrina ritiene che nella nozione in esame rientrino non solo i reati indicati nell'art. 51 c. 3 bis c.p.p., ma anche quelli di cui all'art. 372 c. 1 bis c.p.p.

Per la tesi estensiva, Cass. sez. 1, 27/1/1993, n. 335, Santomauro, Cass. Sez. U., 22/3/2005, 17706, Petrarca e altri, dove è stato affermato, per converso, che la nozione di “criminalità organizzata” identifica non solo i reati di criminalità mafiosa e assimilata, oltre ai delitti associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma anche qualsiasi tipo di associazione per delinquere, ex art. 416 c. p., correlata alle attività criminose più diverse, con l'esclusione del mero concorso di persone nel reato, nel quale manca il requisito dell'organizzazione. È da ritenersi incluso in tale categoria anche il complesso di reati associativi di natura terroristica.

Esiste una lunga serie di massime che si attestano su questa definizione giuridica ampia di criminalità organizzata, per es. cfr. Sez. 1, sentenza n. 3972 del 2/7/1998, Rv. 211167, dove c'è un richiamo alle finalità di quest'ultima, che tende a far rientrare nel suo ambito applicativo le attività criminose più diverse, purché realizzate da una pluralità di soggetti i quali, per la commissione di reati abbiano costituito un apparato organizzativo.

L’applicazione di uno statuto processuale ad hoc - L'individuazione della nozione di criminalità organizzata non è una questione accademica ma costituisce il presupposto per l'applicazione di uno statuto speciale processuale. Basterebbe citare la disciplina del coordinamento delle indagini, il complesso D.N.A.-D.D.A., lo stesso rapporto p.m.-p.g. e le strutture specializzate centrali e interprovinciali della polizia giudiziaria, fiore all'occhiello della nostra polizia giudiziaria, con i colloqui investigativi, i termini di durata delle indagini preliminari, la disciplina delle intercettazioni telefoniche e ambientali, la disciplina della durata della custodia cautelare, la possibilità della proroga e della sospensione, la regolamentazione della prova dichiarativa e delle letture in dibattimento, telesame e videoconferenze, tutta la disciplina della premialità, i benefici penitenziari.

Siamo ormai ben lontani dall'epoca in cui una parte della dottrina sosteneva, per invocare una virata nella legislazione, come l'indeterminatezza dell'art. 416 bis c.p., i maxiprocessi, la presenza di collaboratori di giustizia nelle indagini, implicassero vistose deroghe all'oralità e al contraddittorio come caratterizzazione dei procedimenti di criminalità organizzata. L'ordinamento giuridico ha fatto il percorso opposto, razionalizzando e stabilizzando la disciplina speciale per la criminalità organizzata, come la vicenda e la storia del regime speciale dell'art. 41 bis o.p. dimostra ampiamente.

La Convenzione di Palermo e la legge di ratifica - Una importante tappa del processo di chiarificazione della nozione di criminalità organizzata è stata la Convenzione di Palermo, e la legge di ratifica con i relativi Protocolli, dove la soluzione è che “crimine transnazionale” e “criminalità organizzata” non sono la stessa entità, nel senso che la transnazionalità del crimine e dei reati non coincide con la criminalità organizzata, perché anche i reati possono essere transnazionali. La nozione unitaria tratteggiata dalla giurisprudenza di legittimità si confronta con “le” nozioni che l'ordinamento giuridico sostanziale e processuale hanno delineato, quella di criminalità organizzata rinvia a elenchi di reati di volta in volta specificati, mentre talune volte si parla di “associazione mafiosa”, di “criminalità comune” e così via. Naturalmente, in mancanza di una definizione giuridica di reati di criminalità organizzata, gli sforzi degli interpreti sono stati nel senso di elaborare tale categoria ricostruendola, di volta in volta, attraverso il rinvio a quei reati associativi che denotano l'esistenza di un impianto organizzativo ovvero a quei reati specifici che sono manifestazione dell'agire organizzativo, sia in quanto reati-mezzo sia in quanto reati-fine dell'associazione.

Da tempo è ormai assodato che la specificità delle indagini del p.m. e delle investigazioni della p.g. risiede nella loro polarizzazione attorno ai c.d. “reati-fine” dell'associazione mafiosa, attraverso l'applicazione di tecniche integrate, cioè di tipo classico e patrimoniali e bancarie, ma adesso anche di tipo scientifico e tecnologico. Naturalmente la posta in gioco nella differenziazione delle varie tesi è di ammettere o meno i fenomeni corruttivi e concussivi svolti con sistemi organizzati nel novero della categoria di “criminalità organizzata”.

La soluzione delle sezioni Unite - La soluzione che offrono le S.U. con la sentenza in commento è proprio in questo senso. Fino a qualche tempo fa si dava per scontato che tali fenomeni potessero fuoriuscire da una categoria così impegnativa non solo linguisticamente ma anche dal punto di vista sociologico e criminologico come quella di “criminalità organizzata”. Ma l'agire in concreto così come si è profilato delle organizzazioni criminali e mafiose, che hanno visto nella corruzione una nuova forma di attività ancillare e strutturale e nel riciclaggio dei proventi della corruzione un nuovo canale di investimento, ha imposto di rivisitare questa nozione concettuale.
La sentenza giunge a queste conclusioni attraverso un articolato percorso logico, che parte dalla ricognizione delle norme processuali che richiamano espressamente la nozione di “criminalità organizzata”. A queste si aggiungono un secondo gruppo di norme contenenti un “catalogo” di fattispecie penali sostanziali, si tratta delle due norme fondamentali, l'art. 51 c. 3 bis e 407 c. 2 lett. a) c.p.p., ed infine gli artt. 4 bis e 41 bis o.p.

La sentenza non manca di analizzare le varie teorie che si sono affacciate in dottrina circa la definizione di “criminalità organizzata”, raggruppabili in due grandi linee interpretative: da un lato le tesi di natura socio-criminologica, dove prevale una metodologia descrittiva dei fenomeni e dall'altra quelle di carattere più strettamente tecnico-giuridico, dove invece si privilegia la ricognizione dei delitti ruotanti attorno alla nozione. La sentenza, alla fine di questa interessante analisi che poi prosegue sulla giurisprudenza e sui filoni interpretativi accolti, recepisce una nozione di “criminalità organizzata” che potrebbe essere definita di tipo sostanzialistico in quanto guarda particolarmente alla struttura organizzativa con i suoi requisiti di stabilità e di consapevolezza da parte degli adepti e alle finalità perseguite, che si pone in sintonia con l'universo sovranazionale e con la giurisprudenza europea e i vari documenti del Parlamento europeo.

Le conclusioni - Il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite è il seguente: “limitatamente ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata, è consentita l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni fra presenti – mediante l'installazione di un ‘captatore informatico' in dispositivi elettronici portatili (ad es. personal computer, tablet, smartphone, ecc…), - anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pur non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l'attività criminosa”.

Sul secondo punto, le Sezioni Unite adottano una nozione ampia di “criminalità organizzata” comprensiva non dei reati associativi anche relativi ai fenomeni corruttivi, laddove stabilisce che “per reati di criminalità organizzata devono intendersi non solo quelli elencati nell'art. 51 c. 3 bis e 3 quater c.p.p., ma anche quelli comunque facenti capo a un'associazione per delinquere ex art. 416 c.p., correlata alle attività criminose più diverse, con esclusione del mero concorso di persone nel reato”.

In conclusione la sentenza rigetta il ricorso della difesa richiamando la propria consolidata giurisprudenza circa i limiti di cognizione del giudice di legittimità, particolarmente in materia de libertate: la valutazione sulla gravità indiziaria può essere contestata solo sotto il profilo della sussistenza, adeguatezza, completezza e logicità della motivazione, mentre sono inammissibili le censure che pur investendo la motivazione si risolvono in una diversa valutazione delle circostanze già esaminate dal giudice di merito. Sappiamo bene che la sentenza è stata aspramente criticata dall'Unione della Camere Penali, nella parte riguardante l'ammissibilità del captatore informatico, visto come un nuovo sproporzionato strumento di indagine, addirittura si è parlato di spinta autoritaria dal sapore orwelliano, ispirata e alimentata da vari settori della magistratura, e che nel conflitto con la politica, occorrerebbe un riequilibrio dei poteri, e la critica è sfociata in una protesta con conseguente astensione dalle udienze nei giorni 24, 25 e 26 maggio 2016. Si è anche parlato, in sedi diverse, di intercettazione sbiadita e dai confini incerti, e di violazione del principio di riserva di giurisdizione e, ancor prima, del principio di legalità.

In contrario, ci permettiamo di notare come le soluzioni cui approda la sentenza in commento siano, invece, equilibrate, ineccepibili e convincenti, perché assolutamente aderenti allo spirito e alla lettera delle norme giuridiche dell'ordinamento in materia di diritto sostanziale e processuale penale della criminalità organizzata. Peraltro, la sentenza passa in rassegna tutte le proposte di riforma in discussione al Parlamento, quasi a rimarcare che la decisione del caso è stata dettata dall'applicazione della normativa a regime, mentre potrebbe essere rivisitata dal legislatore la disciplina che regola questo strumento investigativo mediante forme alternative.

I box con l’ordinanza di rimessione e l’orientamento contrario sono a cura di Giuseppe Amato

L’ordinanza di rimessione

Il contrasto

Corte di cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 1 luglio 2016 n. 26889

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