Identità, tecnologia e influencer: le nuove sfide del fashion law
Il Covid-19 ha impresso un’accelerazione a una serie di cambiamenti già in corso nel settore moda. Che spaziano dal ripensamento dei canali di vendita - con gli acquisti online che erodono percentuali di fatturato sempre maggiori al retail tradizionale - alla nascita di materiali nuovi, tecnologicamente avanzati, alla ricerca di tutele su scala internazionale. Passando per gli influencer, i “suggeritori” di nuove tendenze, che nella noia del lockdown hanno attirato un pubblico più eterogeneo rispetto al loro seguito tradizionale. Da queste sfide nascono altrettante sfide legali.
Dai prezzi agli influencer
La distribuzione è un tema chiave, che porta con sé altrettante questioni. «I negozi fisici, che oggi hanno a che fare con il tema spinoso degli affitti e degli altri costi di gestione molto elevati, potranno subire un calo nelle presenze di clienti - dice il professor Luigi Mansani, partner e head IP Italy di Hogan Lovells -. Quindi le aziende stanno pensando di ridurne il numero, chiudendo i negozi meno significativi o troppo grandi. Lo hanno già fatto o annunciato alcuni marchi del fast fashion come H&M e Zara», dice. I negozi che rimarranno dovranno essere il vero “tempio” del brand, con una caratterizzazione forte e concept protetti da proprietà intellettuale.
Dall’altro lato, invece, «molte più persone, avendo fatto esperienza degli acquisti virtuali durante il lockdown, continueranno a fare acquisti online. Chi non si è attrezzato per vendere online potrebbe riscontrare problemi nel reggere la concorrenza di prezzo e di servizi dei rivenditori online più efficienti». Torna alla ribalta, oggi più che mai, il tema (legale) degli influencer: «Sempre più persone, avendo incrementato l'uso dei social durante il lockdown si affidano ai consigli dei personaggi online e si ripropone la tematica della trasparenza e di tutte quelle zone grigie che esistono tra la pubblicità dichiarata e il consiglio spontaneo», dice Mansani. Che chiosa: «Il fatto che proprio l'anno scorso gli influencer italiani si siano dotati di un codice di autodisciplina è incoraggiante».
Tutela del prodotto online
Che il tema della distribuzione, tra on e offline, sia decisivo si evince anche dalle parole di Francesco Anglani, partner di BonelliErede: «La pandemia ha portato a un incremento degli acquisti nel canale e-commerce, che è insieme un’opportunità ma anche uno strumento da maneggiare con cura perché può condurre a una compromissione del valore del brand che si basa sia sull’aura di prestigio dei prodotti sia sul contesto di vendita».
Gli strumenti per tutelarsi ci sono: «Sul fronte della vendita online, la soluzione è senza dubbio la distribuzione selettiva, che permette non soltanto di escludere dal network i rivenditori online che hanno siti che non rispettano i parametri qualitativi fissati dal brand, ma anche di vietare le vendite sugli open marketplace, come molti marchi del lusso vogliono fare», dice Anglani. Che evidenzia un altro trend legale: «Il made in Italy è da sempre un target per gli investitori stranieri e, ora, la crisi post Covid-19 lo renderà un bersaglio ancora più appetibile: non mi meraviglierei se ci fosse un’ondata di operazioni M&A perché il settore moda-lusso italiano, fatto anche di piccole aziende, ha sofferto molto durante il lockdown».
Protezione della filiera
Il tema delle aziende italiane preda di investitori internazionali porta a un’altra sfida legale per il settore, quella della protezione della filiera. «La nostra è una filiera unica e fragile al contempo che può essere tutelata utilizzando strumenti tecnologici come la blockchain», dice Pier Luigi Roncaglia, fondatore dello studio Spheriens. Il Covid-19 ha anche posto nuovi obiettivi alla ricerca tecnologica, uno dei fiori all’occhiello del settore tessile-moda italiano: «La ricerca tessile oggi va nella direzione della sostenibilità, ma anche in quella dei tessuti anti batterici e anti virus. Mi aspetto casi in cui prodotti vengano spacciati per anti virus senza esserlo e quindi casi che rientrano nella sfera della concorrenza sleale».