Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 2 e il 5 maggio 2023

di Giuseppe Cassano


Nel corso di questa prima settimana del mese di maggio le Corti d'Appello affrontano i temi del divieto di discriminazione nel mondo del lavoro, del risarcimento e degli indennizzi dei danni conseguenti ad attività estrattive (minerarie), del superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, della tutela del possesso e, infine, della svalutazione monetaria nelle obbligazioni pecuniarie.
Da parte loro i Tribunali trattano dei danni cagionati da cosa in custodia, dell'accesso all'attività assicurativa, del conto corrente bancario, dello scioglimento della comunione e, infine, del mutuo solutorio.


LAVORO E FORMAZIONE
Occupazione e condizioni di lavoro – Divieto di discriminazioni – Parità di trattamento.

(Direttiva n. 2000/78/CE, articolo 5; Dlgs 9 luglio 2003 n. 216, articolo 2)
Osserva in sentenza la Corte d'Appello di Roma che la Direttiva n. 2000/78/CE del Consiglio della Comunità Europea del 27 novembre 2000 stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione o dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età o dalle tendenze sessuali (c.d. Direttiva "quadro").
Tale Direttiva fissa standard minimi comuni nelle leggi in vigore negli Stati membri dell'U.E. contro la discriminazione fondata sulla razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale ed è stata attuata nell'ordinamento interno con il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, che all'art. 2, commi 1 e 2, ne ha riprodotto la definizione del principio di parità di trattamento, inteso come assenza di qualsiasi discriminazione, e i concetti di discriminazione diretta e discriminazione indiretta, mentre al comma 3, dopo aver previsto l'ambito di applicazione del divieto di discriminazione, ha individuato alcune possibili eccezioni.
Si tratta, quanto a queste ultime, di quelle differenze di trattamento, che, pur risultando indirettamente discriminatorie, sono giustificate da finalità legittime perseguite dal datore di lavoro, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, attraverso mezzi leciti e giustificati.
Il principio di non discriminazione opera, nel rispetto del canone dell'effettività, persino in controversie tra privati e obbliga i Giudici nazionali a disapplicare disposizioni nazionali non conformi ad esso e a disattendere le eventuali interpretazioni contrarie date in precedenza e, ciò, anche quando la Direttiva cit. non risulti applicabile, ovvero quando il Giudice si trovi nell'impossibilità di procedere a un'interpretazione conforme del diritto nazionale.
In altre parole, l'ambito di applicazione del principio generale di eguaglianza e non discriminazione è particolarmente ampio operando in tutte le situazioni che cadono nell'ambito di applicazione del diritto dell'U.E..
Per trasporre correttamente nel tessuto normativo nazione la Direttiva de qua non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l'obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze concrete, a favore di tutte le persone con disabilità, che riguardino i diversi aspetti dell'occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano ad essi di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione.
Corte appello Roma, sezione lavoro, 2 maggio 2023 n. 1396

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Miniere – Attività estrattiva – Danni – Risarcimento e indennizzi.
(Rd 29 luglio 1927 n. 1443, articoli 19, 31 e 42; Dpr 8 giugno 2001 n. 327, articoli 49 e 50)
La Corte d'Appello di Cagliari (sez. distaccata di Sassari), intervenuta in materia di ricerca e coltivazione delle miniere e danni, precisa come il rapporto concessorio cessi soltanto con l'accettazione della rinuncia del concessionario e la pubblicazione del relativo decreto, dopo la conclusione delle operazioni di bonifica del sito (art. 42 R.D. 1443/1927).
Sino a quel momento il concessionario, in quanto tale, è tenuto ad indennizzare gli eventuali danni arrecati ai privati dall'esercizio dell'attività mineraria ai sensi dell'art. 19 del medesimo R.D..
Danni, tra i quali deve essere annoverato anche quello derivante dall'occupazione dei soprassuoli, laddove l'espressione "eventuali danni", utilizzata nella citata norma di legge, non può essere intesa come "ulteriori" rispetto all'occupazione dei suoli, bensì semplicemente come danni effettivamente realizzatisi, ben potendo la coincidenza tra la figura del concessionario e quella del proprietario dei terreni elidere un possibile danno da occupazione di fondi altrui.
Dunque, la norma contempla anche l'eventualità che la scissione tra concessionario e proprietario dei soprassuoli cagioni un danno al terzo proprietario/possessore.
Ciò che è assistito da un vincolo conformativo della proprietà è infatti il solo giacimento minerario in sé stesso considerato, nel sottosuolo o in superficie, cui fa da corollario l'impossibilità per il possessore-proprietario del fondo di opporsi alle operazioni di ricerca e sfruttamento.
Con la precisazione che, quando queste operazioni determinano un pregiudizio del soprassuolo, perché lo occupano con strutture e macchinari funzionali all'esercizio della miniera (piazzali, strutture di stoccaggio, ingresso alle gallerie ecc.) non è pensabile che un tale sacrificio del privato rimanga senza indennizzo.
D'altronde gli artt. 49 e 50 D.P.R. n. 327/2001 (TUE) contengono un principio generale di indennizzabilità della occupazione temporanea di aree per ragioni di pubblica utilità anche quando la vicenda espropriativa non si completi.
Il diritto dei privati pregiudicati dall'esercizio dell'attività mineraria, oltre che nel citato art. 19, trova ulteriore conforto nell'art. 31 del medesimo R.D. n. 1443, che dispone che "il concessionario è tenuto a risarcire ogni danno derivante dall'esercizio della miniera".
Corte appello Cagliari, sezione dist. Sassari, 3 maggio 2023 n. 143

CONTRATTI
Obbligazioni contrattuali - Obbligazioni di mezzi e di risultato – Superamento.

(Cc, articolo 1173)
Sottolinea in sentenza la Corte d'Appello di Milano come sia da ritenersi ormai definitivamente tramontata la distinzione tra obbligazioni di "mezzi" e di "risultato" in favore di una teoria unitaria dell'obbligazione, giacchè tutte le obbligazioni contrattuali sono caratterizzate dall'essere funzionali al raggiungimento da parte del creditore di un'utilità (art. 1173 c.c.).
Il superamento di tale distinzione rileva ai fini del riparto dell'onere della prova. In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché la cennata distinzione è oggetto di critica poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.
L'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.
Se dunque è ormai superata la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato la stessa può dirsi conservare ancora una valenza meramente "descrittiva", che, in quanto tale, non comporta più alcuna conseguenza sul piano probatorio.
Un distinguo che tutt'ora permane, argomenta ancora l'adita Corte lombarda, è quello che intercorre tra obbligazioni nelle quali l'utilità che il creditore persegue dipende esclusivamente dall'attività del debitore, sicché tra condotta e risultato vi è un rapporto di causalità necessaria, e quelle in cui in cui il raggiungimento del risultato dipende, oltre che dal comportamento del debitore, dalla concomitanza di ulteriori fattori.
Corte appello Milano, sezione IV, 3 maggio 2023 n. 1389

POSSESSO
Azione di reintegrazione – Onere della prova.

(Cc, articolo 1140)
Osserva la Corte d'Appello di Salerno che, ai sensi dell'art. 1140 c.c., il possesso si concretizza nel potere di fatto sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale.
Il possesso, quale situazione di fatto, consta di due elementi: uno oggettivo, ossia il corpus possessionis e l'altro soggettivo, vale a dire l'intenzione di esercitare un diritto reale sulla cosa con (animus possidendi).
Sia la detenzione, sia il possesso possono dirsi usualmente costituiti dai due componenti relativi al corpus (potere di fatto di esercitare sul bene un contenuto di diritto) ed all'animus. Tuttavia, mentre nel possesso il corpus può in concreto mancare (possesso mediato), nella detenzione esso mai può fare difetto. Per converso l'animus inteso come intenzione di avere la cosa per sé è presente solo nel possesso.
Il c.d. animus detinendi, infatti, è qualcosa di assolutamente diverso dall'animus rem sibi habendi: il primo consiste, a differenza di quanto si può dire per il secondo, proprio nel riconoscimento dell'esistenza di avere il potere di fatto in quanto derivato dall'altrui diritto reale. In conclusione, ciò che distingue il possesso dalla detenzione è l'animus, nel senso che nel caso di detenzione, il detentore ha la materiale disponibilità della cosa, ma riconosce l'altrui diritto (animus detinendi).
In tema di azione di reintegrazione, argomenta ancora l'adita Corte, la produzione del titolo da cui il deducente trae lo "ius possidendi" può solo integrare la prova del possesso, al fine di meglio determinare e chiarire i connotati del suo esercizio, ma non può sostituire la prova richiesta nel relativo giudizio, avendo il ricorrente l'onere di dimostrare di avere effettivamente esercitato, con carattere di attualità, la signoria di fatto sul bene che si assume sovvertita dall'altrui comportamento violento od occulto.
La prova del possesso può essere data anche tramite le prove testimoniali che, tuttavia, non possono avere ad oggetto apprezzamenti o giudizi, ma fatti obiettivi. Pertanto, consistendo il possesso in una relazione tra il soggetto e la cosa, può formare oggetto di testimonianza l'attività attraverso la quale il potere si manifesta, non il risultato del suo esercizio nel quale il possesso si identifica.
Corte appello Salerno, 3 maggio 2023 n. 582

OBBLIGAZIONI PECUNIARIE
Obbligazioni pecuniarie – Svalutazione monetaria - Maggior danno.

(Cc, articolo 1224)
La Corte d'Appello di Venezia richiama in sentenza il principio di diritto secondo cui il maggior danno da svalutazione monetaria nelle obbligazioni pecuniarie non può essere riconosciuto sulla base della semplice qualità di imprenditore commerciale del creditore, e sulla mera presunzione dell'impiego antinflazionistico delle somme di denaro dovute, poiché il maggior danno ai sensi dell'art. 1224, II, c.c. può ritenersi esistente in via presuntiva soltanto nei casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, indipendentemente dalla qualità soggettiva o dall'attività svolta dal creditore, fermo restando che, qualora quest'ultimo domandi per il titolo indicato una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio, sarà suo onere provare, anche in via presuntiva, l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio.
In particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l'onere di dimostrare o di aver fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi, ovvero - attraverso la produzione dei bilanci - quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite.
Con la precisazione, con riferimento al ricorso al credito esterno, che, in relazione alle dimensioni dell'impresa e all'entità del credito, sia effettivamente presumibile che il ricorso al credito esterno sia stato conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo avrebbe comportato la destinazione della somma a parziale estinzione del debito assunto verso il finanziatore (si incoraggerebbe altrimenti il possibile ricorso strumentale al credito bancario in funzione probatoria dell'entità del danno nel successivo giudizio di adempimento e risarcimento).
Il debitore, dal canto suo, avrà invece l'onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale.
Corte appello Venezia, sezione II, 3 maggio 2023 n. 990

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Danno cagionato da cosa in custodia – Responsabilità – Onere della prova.

(Costituzione, articolo 2; Cc, articoli 1227 e 2051)
Osserva in sentenza il Tribunale di Castrovillari che, nelle ipotesi di risarcimento danni ex art. 2051 c.c., grava sul custode l'onere di dimostrare l'inidoneità in concreto della situazione a provocare l'incidente o la colpa del danneggiato, ovvero l'esistenza di altri fatti idonei ad interrompere il nesso causale fra le condizioni del bene e il danno.
Tale responsabilità per danni ha natura oggettiva, in quanto si fonda sul mero rapporto di custodia, cioè sulla relazione intercorrente fra la cosa dannosa e colui il quale ha l'effettivo potere su di essa (come il proprietario, il possessore o anche il detentore) e non sulla presunzione di colpa, restando estraneo alla fattispecie il comportamento tenuto dal custode.
A tal fine, occorre, da un lato, che il danno sia prodotto nell'ambito del dinamismo connaturale del bene o per l'insorgenza in esso di un processo dannoso, ancorché provocato da elementi esterni e, dall'altro, che la cosa, pur combinandosi con l'elemento esterno, costituisca la causa, o la concausa, del danno.
Pertanto, l'attore deve offrire la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e l'evento lesivo, mentre il convenuto deve dimostrare l'esistenza di un fattore estraneo che, per il carattere dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso di causalità, cioè il caso fortuito, in presenza del quale è esclusa la responsabilità del custode.
Con la precisazione che la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell'art. 1227, I, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela (art. 2 Cost.). Ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.
Tribunale Castrovillari, 2 maggio 2023 n. 594

ASSICURAZIONI
Attività assicurativa – Accesso – Requisiti.

(Cc, articoli 1883, 2325, 2511 e 2546: Dlgs 7 settembre 2005 n. 209, articolo 14; Reg. (CE) n. 2157/2001; Reg. (CE) n. 1435/2003)
Secondo quanto afferma in sentenza l'adito Tribunale di Catanzaro, in ragione della particolare rilevanza dell'attività svolta dalle compagnie di assicurazione, e nell'ottica di garantire una sana e prudente gestione dell'attività assicurativa, il Legislatore ha previsto degli specifici requisiti per l'accesso all'attività assicurativa.
Si richiama al riguardo sia la norma di cui all'art. 1883 c.c., secondo cui "l'impresa di assicurazione non può che essere esercitata da un istituto di diritto pubblico o da una società per azioni" e sia la speciale disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private), il cui art. 14 prevede tra le varie condizioni necessarie per ottenere il rilascio della relativa autorizzazione da parte dell'IVASS, che "sia adottata la forma di società per azioni, di società cooperativa o di mutua assicurazione le cui quote di partecipazione siano rappresentate da azioni, costituite ai sensi, rispettivamente, degli articoli 2325, 2511 e 2546 del codice civile, nonché nella forma di società europea ai sensi del regolamento (CE) n. 2157/2001 relativo allo statuto della società europea e la forma di Società cooperativa europea (SCE) ai sensi del regolamento (CE) n. 1435/2003".
Il diritto euro-unionale osta a che le Autorità di vigilanza di uno Stato membro assumano in via d'urgenza, nei confronti di un'impresa di assicurazione diretta diversa dall'assicurazione sulla vita che opera sul territorio di tale Stato membro in regime di libera prestazione di servizi, a tutela degli interessi degli assicurati e degli altri possibili beneficiari delle polizze assicurative sottoscritte, provvedimenti, come il divieto di stipulare nuovi contratti su tale territorio, fondati sulla carenza, originaria o meno, discrezionalmente valutata, di un requisito soggettivo previsto per il rilascio dell'autorizzazione necessaria all'esercizio dell'attività assicurativa, quale il requisito relativo alla reputazione.
Tribunale Catanzaro, sezione II, 2 maggio 2023 n. 685

BANCHE E ISTITUTI DI CREDITO
Conto corrente bancario – Ammontare del credito – Onere della prova.
(Cc, articolo 1832; Dlgs 1 settembre 1993 n. 385, articolo 5)
Secondo il Tribunale di Cosenza, con specifico riferimento ai rapporti bancari, è principio consolidato, in ossequio al corretto riparto dell'onere probatorio, quello secondo cui la Banca che assume essere creditrice di un saldo finale di conto corrente bancario, ove oggetto di contestazione nel suo ammontare, deve produrre tutti gli estratti conto relativi all'intera durata del rapporto contrattuale.
Invero, la banca non può sottrarsi all'onere di provare il preciso ammontare del credito vantato nei confronti di un cliente, e da quest'ultimo contestato in giudizio, invocando l'insussistenza dell'obbligo di conservare le scritture contabili oltre i dieci anni dall'ultima registrazione.
In realtà, il comportamento della Banca che comunque si disfa della documentazione afferente a un credito, di cui non ha ancora ottenuto soddisfacimento e rientro, si manifesta, in sé stesso, di negligenza grave, pure venendo apertamente a violare il dovere di "sana e prudente gestione" di cui all'art. 5 del vigente D.Lgs. n. 385/1993 (TUB).
Al tempo stesso, è vero che, nel contratto di conto corrente, l'approvazione (anche tacita) dell'estratto conto, ai sensi dell'art. 1832, I, c.c., preclude qualsiasi contestazione in ordine alla conformità delle singole annotazioni ai rapporti obbligatori dai quali derivano gli accrediti e gli addebiti iscritti nell'estratto conto (salva l'impugnazione per errori, omissioni e duplicazioni di carattere formale, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione), pur non impedendo di sollevare contestazioni in ordine alla validità ed all'efficacia dei rapporti obbligatori dai quali derivano i suddetti addebiti ed accrediti, e cioè quelle fondate su ragioni sostanziali attinenti alla legittimità, in relazione al titolo giuridico, dell'inclusione o dell'eliminazione di partite del conto corrente.
Se invece ad agire in giudizio è il correntista, l'onere di provare l'andamento del conto dal suo inizio incombe su di lui quale attore.
E così, il correntista (che agisce in giudizio per la restituzione di quanto indebitamente riscosso dalla banca) ha l'onere di dimostrare, nella sua precisa entità, l' appostazione in conto di somme non dovute, successivamente oggetto di riscossione da parte dell'istituto di credito.
Tribunale Cosenza, sezione II, 2 maggio 2023 n. 774

COMUNIONE
Scioglimento della comunione - Creditori e aventi causa – Mancata evocazione in giudizio.

(Cc, articolo 1113; Cpc, articolo 784)
Precisa in sentenza il Tribunale di Latina che, nel giudizio di scioglimento della comunione, il dovere del Giudice di ordinare, in presenza di trascrizioni o iscrizioni contro i singoli compartecipi, la chiamata in giudizio dei creditori e degli aventi causa ai sensi degli artt. 784 c.p.c. e 1113 c.c. , rispondendo alla sola esigenza di consentire loro di vigilare sul corretto svolgimento del procedimento divisionale in ragione degli effetti riflessi da esso derivanti su garanzie patrimoniali ed effettiva realizzazione del proprio acquisto, non giustifica l'implicita imposizione, a carico dei compartecipi, di documentare, sotto pena di inammissibilità della domanda, la presenza o l'assenza di trascrizioni e iscrizioni sulla quota indivisa dei singoli, configurandosi la chiamata dei creditori iscritti e degli aventi causa dei compartecipi come onere da assolvere affinché la decisione faccia stato nei loro confronti, senza costituire condizione di validità della divisione.
Pur avendo diritto ad intervenire nella divisione, ai sensi dell'art. 1113, I, c.c., creditori e aventi causa del compartecipe non sono parti in tale giudizio, al quale devono partecipare soltanto i titolari del rapporto di comunione, potendo i creditori iscritti e gli aventi causa intervenire in esso, al fine di vigilare sul corretto svolgimento del procedimento divisionale.
Di conseguenza che la chiamata dei creditori iscritti e degli aventi causa di uno dei compartecipi non è condizione di validità della divisione, ma configura un onere che i compartecipi debbono assolvere se ed in quanto si voglia che la relativa decisione faccia stato nei lori confronti.
Conclusivamente, la mancata evocazione in giudizio dei creditori e aventi causa non invalida la sentenza anche nei confronti dei comproprietari, ma comporta le conseguenze stabilite nell'art. 1113 c.c.: a) il potere di impugnativa della divisione, se la violazione è incorsa in danno dei creditori e aventi causa che abbiano fatto opposizione; b) il potere di coloro che abbiano trascritto il negozio di acquisto o iscritto l'ipoteca di disconoscere l'efficacia della divisione, la quale sarà nei loro confronti tam quam non esset.
Tribunale Latina, sezione I, 2 maggio 2023 n. 1012

BANCHE E ISTITUTI DI CREDITO
Mutuo solutorio – Validità.

(Legge 8 agosto 1977 n. 546, articolo 2; Dl 18 novembre 1966 n. 976, articolo 43; legge 23 dicembre 1966 n. 1142; Rdl 15 aprile 1926 n. 765, articolo 16)
Afferma il Tribunale di Firenze la validità del cd. "mutuo solutorio", in quanto non contrario alla legge, né all'ordine pubblico, essendo caratterizzato da una effettiva traditio poiché l'accredito in conto corrente delle somme erogate è sufficiente ad integrare la datio rei giuridica propria del mutuo.
In particolare, il mutuo solutorio non è nullo in quanto il ripianamento della passività costituisce, in definitiva, una possibile modalità di impiego dell'importo mutuato.
Il perfezionamento del contratto di mutuo, con la consequenziale nascita dell'obbligo di restituzione a carico del mutuatario, si verifica nel momento in cui la somma mutuata, ancorchè non consegnata materialmente, sia posta nella disponibilità del mutuatario medesimo, non rilevando, a detto fine, che il contratto abbia le caratteristiche del mutuo cd. di scopo, nel quale sia previsto l'obbligo di utilizzare quella somma ad estinzione di altra posizione debitoria verso il mutuante.
E così il mutuo stipulato per ripianare un debito pregresso del mutuatario verso il mutuante non è nullo giacché, tra l'altro, il pagare i propri debiti è un principio di ordine pubblico.
Non può escludersi in astratto che la concessione d'un mutuo c.d. "solutorio" possa nel singolo caso celare un atto in frode dei creditori o un mezzo anomalo di pagamento: ma in tali casi l'atto sarà nullo o revocabile per questa ragione, e non perchè sia stato concesso allo scopo di saldare un debito pregresso.
Del resto, che mutui e finanziamenti persino agevolati od erogati dallo Stato possano essere utilizzati per estinguere debiti pregressi, anche verso lo Stato stesso, è previsto in alcuni casi dalla legge (L. 8 agosto 1977, n. 546, art. 2; D.L. 18 novembre 1966, n. 976, art. 43 conv. con mod. dalla L. 23 dicembre 1966, n. 1142; R.D.L. 15 aprile 1926, n. 765, art. 16), sicchè appare arduo predicare la nullità d'una operazione consentita dalla legge.
Tribunale Firenze, sezione III, 3 maggio 2023 n. 1317

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