Penale

Negare i crimini non preclude il permesso premio

La Cassazione (sentenza 23556) accoglie il ricorso del detenuto, anche alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma Cartabia

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di Patrizia Maciocchi

Non si può negare il permesso premio al condannato per reati ostativi, che non riconosce di averli commessi. L’ostinazione a disconoscere la paternità di crimini efferati messi in atto in un contesto di criminalità organizzata, non basta per dire no al beneficio a fronte di altri elementi positivi, ad iniziare dalla condotta carceraria ineccepibile. La Cassazione (sentenza 23556) accoglie il ricorso del detenuto, anche alla luce delle modifiche introdotte nell’ordinamento penitenziario dal Dlgs 150/2022, la cosiddetta riforma Cartabia, e della sentenza della Corte costituzionale 253/2019.

Viene così annullata con rinvio, l’ordinanza con il no al permesso premio all’autore di tre omicidi di ’ndrangheta e di violazioni sulla legge delle armi. Reati per i quali era scattato il regime differenziato, previsto dall’articolo 4-bis, comma 1 dell’Ordinamento penitenziario. La decisione del magistrato di sorveglianza si basava, sull’assenza di revisione critica del passato delinquenziale, disconosciuto invocando il diritto al “silenzio e alla speranza”. Atteggiamento che non consentiva di superare la pericolosità presunta, che esiste per i non “pentiti” .

Ma la Suprema corte cambia prospettiva e valorizza, il lavoro di scrivano, la laurea in giurisprudenza e un encomio preso in carcere. La giurisprudenza di legittimità si è mossa sulla scia della sentenza della Corte costituzionale (253/2019) chiarendo che, senza collaborazione, il beneficio può essere accordato, grazie ad elementi che consentano di superare la presunzione del pericolo attuale.

In questo contesto si è inserito anche il nuovo articolo 4-bis, comma 1 bis dell’ordinamento penitenziario disegnato dalla riforma Cartabia. Secondo la norma i benefici sono subordinati alla riparazione pecuniaria o alla prova dell’impossibilità dei mezzi economici per farlo. Per escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e il rischio che siano ripristinati, contano poi elementi diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo e alla dissociazione.

Ad avviso della Cassazione il giudice di sorveglianza deve bilanciare la caratura criminale con l’ ottimo percorso rieducativo, non limitarsi a constatare la gravità dei delitti. Se così fosse vanificherebbe qualunque aspirazione di recupero per chi non collabora con la giustizia, entrando in conflitto con la funzione rieducativa della pena e con la ratio della legge. Il collegio si dice consapevole dell’esistenza della sottilissima linea di demarcazione che, nei reati gravissimi, divide le valutazioni sulla pericolosità sociale da quelle sulla condanna morale. Il giudice di sorveglianza non può però esimersi dal valutare tutti gli elementi “individualizzanti”, del percorso in carcere, per verificare se è possibile una lettura favorevole.

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