Penale

Diffamazione, il marito famoso non può raccontare la vita privata dell'ex moglie "riservata"

La Cassazione boccia il ricorso di Cristiano De Andrè condannato per aver diffamato la ex moglie

di Francesco Machina Grifeo

Non basta qualche comparsata sulla stampa "rosa", per via del marito famoso, per poter esporre ai quattro venti i fatti della vita privata di una persona. La Quinta sezione penale della Cassazione, sentenza n. 32917/2021, ha così respinto il riscorso del cantautore Cristiano De Andrè contro la decisione con cui la Corte d'Appello di Trento nel gennaio dell'anno scorso aveva confermato la condanna di primo grado a un mese di reclusione pena sospesa e a un risarcimento di 5.000 euro alla ex moglie e madre dei suo figli da lui diffamata nel libro autobiografico 'La versione di C'.

Per il giudice di secondo grado le espressioni contenute nel libro - "Vi era un isterismo di fondo in ogni suo atto...il postgravidanza aveva agito sul suo sistema nervoso in maniera devastante" - sono da ritenersi lesive della reputazione della ex. Così come la descrizione della donna come una "pericolosa manipolatrice" pronta ad usare i figli per dare battaglia alla nuova compagna del musicista.

Il ricorrente si era difeso invocando il diritto di critica e di cronaca. Per la Suprema corte tuttavia la divulgazione di fatti diffamatori è scriminata allorché ricorrano - congiuntamente - i requisiti della continenza verbale, della verità della notizia e dell'interesse pubblico alla conoscenza del fatto diffamatorio. L'interesse della persona alla conservazione della propria onorabilità infatti "deve essere bilanciato con altri interessi, pubblici e privati, pure meritevoli di tutela, tra i quali spiccano l'interesse della collettività alla corretta informazione".

Ciò premesso, prosegue la decisione, correttamente i giudici di merito hanno escluso che ricorresse, in primis, il requisito della rilevanza pubblica della notizia, sul rilievo che le vicende e le qualità personali della ex - seppur comparsa, talvolta, su quotidiani rosa e nota per essere stata la moglie di Cristiano De André, a sua volta figlio del più noto Fabrizio De André — "non rivestono, per il pubblico, alcun interesse meritevole di tutela, trattandosi di soggetto che è fuori delle dinamiche sociali, politiche o culturali del paese e che ha diritto, pertanto, a conservare l'anonimato sulle vicende della sua vita privata".

Non è dunque sufficiente la "notorietà, più o meno vasta, di un soggetto perché siano sciorinati in pubblico i fatti della sua vita privata, dovendo comunque trattarsi di notorietà legata ad argomenti di rilievo pubblico, che rendano significativi, per i membri della collettività, anche i fatti personali". La libera manifestazione del pensiero, scrive la Corte, "non deve diventare uno strumento di avvilimento della dignità delle persone o il mezzo per perseguire altre finalità illecite".

Va dunque condiviso, prosegue la decisione, l'orientamento secondo il quale le vicende private di persone impegnate nella vita politica o sociale "possono risultare di interesse pubblico, quando possano desumersene elementi di valutazione della personalità o della moralità di chi debba godere della fiducia dei cittadini, ma non è certo la semplice curiosità del pubblico a poter giustificare la diffusione di notizie sulla vita privata altrui, perché è necessario che tali notizie rivestano oggettivamente interesse per la collettività".

Nel caso in esame, invece, come scritto dalla Corte di Appello, "si è dato in pasto alla generalità dei lettori la cronaca pettegola di vicende domestiche, anche di palmare futilità, senza che in esse possa vedersi un qualche barlume di interesse sociale".

Interessante poi è il passaggio in cui la Corte, analizzando la giurisprudenza citata dalla Procura, afferma che il diritto di critica si amplia nelle trasmissioni dedicate al "gossip". Il caso questa volta era quello di "due noti personaggi dello spettacolo" (Lele Mora e Giovanni Coversano) che in due trasmissione televisive si erano lanciati pesanti accuse (in merito ai costumi sessuali del primo e alla beneficienza "pagata" del secondo).

In quel caso, ricorda la Cassazione, la scriminante del diritto di critica è stata ritenuta operante perché, "in un contesto caratterizzato da una platea di spettatori morbosamente interessati alla conoscenza della vita privata di persone note e dove spesso anche queste ultime figurano quali stimolatori dei dibattiti in materia deve necessariamente ampliarsi la soglia dell'interesse collettivo entro cui il diritto di critica può essere legittimamente esercitato".

In altri termini, i requisiti legittimanti il riconoscimento della scriminante del diritto di critica "assumono una maggiore elasticità in contesti nei quali l'interesse del pubblico ruota attorno alla curiosità determinata dal pettegolezzo". In questo senso, si è valorizzato il fatto che avendo "scelto di intervenire in un programma televisivo che fa notoriamente audience tra un pubblico interessato alla vita di personaggi popolari e ai pettegolezzi che li riguardano, inevitabilmente si è esposto al rischio di essere destinatario di commenti lesivi in suo danno".

Nel caso specifico invece, come detto, non solo la donna non poteva ritenersi un "personaggio interessante il grosso pubblico" ma soprattutto non aveva "accettato di esporsimediaticamente in un contesto caratterizzato dallo sciorino dei sentimenti, dei fatti personali e delle idee in libertà".

Correttamente, poi, conclude la Corte, è stato escluso che abbia rilevanza la verità della narrazione, "stante la previsione dell'art. 596 cod. pen„ che non ammette il colpevole a provare la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa". Di conseguenza, rimane priva di rilievo scriminante anche la convinzione dell'imputato di aver narrato dei fatti veri.

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