Lavoro

Asl, il disavanzo non taglia i compensi dei medici in convenzione

Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 4524 depositata oggi, respingendo il ricorso della Asl 1 Avezzano, Sulmona L'Aquila

di Francesco Machina Grifeo

Le esigenze di contenimento della spesa pubblica non autorizzano l'azienda sanitaria locale a ridurre i compensi dei medici in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, previsti dalla contrattazione integrativa regionale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 4524 depositata oggi, respingendo il ricorso della Asl 1 Avezzano, Sulmona L'Aquila.

Confermato dunque il decreto ingiuntivo che aveva condannato la Asl al pagamento dei corrispettivi previsti dall'Accordo integrativo regionale per la medicina generale approvato dalla Giunta Regionale (il 9 agosto 2006 n. 9) in relazione alle voci "assistenza domiciliare integrata" e compensi denominati "NCP in gruppo". La Azienda aveva invece unilateralmente ridotto gli importi a fronte di prestazioni rimaste invariate.

Come già chiarito dalla Corte di appello però l'operato dell'Azienda non poteva essere ritenuto legittimo solo perché finalizzato a salvaguardare l'equilibrio tra i livelli assistenziali e la disponibilità finanziaria, considerato che "nessuna ragione pubblica, seppur legittima e condivisibile, di contenimento della spesa autorizzava a modificare unilateralmente i termini economici di un rapporto di lavoro quale risultato di una contrattazione collettiva". La riduzione eventualmente avrebbe dovuto essere attuata attraverso la riapertura dei tavoli di concertazione, cosa in realtà avvenuta senza però produrre, all'epoca, alcun esito.

Del resto, prosegue la decisione, i compensi di cui si discute (tutti riconducibili ai modelli organizzativi denominati Nuclei per le Cure Primarie della Medicina Generale) erano previsti dall'Accordo Regionale e non dalla contrattazione aziendale, "sicché sull'importo unitario dello stesso non poteva intervenire unilateralmente la singola Azienda Sanitaria".

Inoltre, nel rapporto convenzionale con i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta, spiega la Suprema corte, l'ente agisce su un piano di parità "sicché l'atto con il quale lo stesso pretende di rideterminare il compenso, in peius rispetto alle previsioni della contrattazione collettiva, non è espressione di potestà pubblica e va equiparato a quello con il quale il debitore, privato, rifiuta di adempiere, in toto o parzialmente, l'obbligazione posta a suo carico".

Nel respingere il ricorso, la Sezione lavoro ha dunque affermato alcuni principi di diritto: «a) Il rapporto convenzionale con il Servizio Sanitario Nazionale dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta è disciplinato, quanto agli aspetti economici, dagli accordi collettivi nazionali e integrativi ai quali devono conformarsi, a pena di nullità, i contratti individuali.
b)
La disciplina dettata dall'art. 48 della legge n. 833/1978 e dall'art. 8 del d.lgs. n. 502/1992 non è derogata da quella speciale prevista per il rientro da eccessivi disavanzi del sistema sanitario e pertanto le esigenze di riduzione della spesa non legittimano la singola azienda sanitaria a ridurre unilateralmente i compensi previsti dalla contrattazione integrativa regionale.
c)
Le esigenze di riduzione della spesa, sopravvenute alla valutazione di compatibilità finanziaria dei costi della contrattazione, devono essere fatte valere nel rispetto delle procedure di negoziazione collettiva e degli ambiti di competenza dei diversi livelli di contrattazione, pertanto l'eventuale atto unilaterale di riduzione del compenso, adottato dalla P.A., non ha natura autoritativa perché il rapporto convenzionale si svolge su un piano di parità ed i comportamenti delle parti vanno valutati secondo i principi propri che regolano l'esercizio dell'autonomia privata».

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