Giustizia

Dagli uffici giudiziari devono venire parole meditate, non silenzi

Il decreto persegue due direttrici principali: da un lato i rapporti tra Procure e stampa; dall’altro la redazione degli atti processuali

di Simone Lonati e Carlo Melzi d’Eril

La direttiva 2016/343/Ue vieta di presentare in pubblico l’imputato come colpevole ed esiste un ormai risalente indirizzo della Corte europea che impone alle autorità pubbliche, nell’informare, di non lasciar trasparire un giudizio di colpevolezza prima dell’accertamento definitivo. In questo contesto il decreto legislativo nazionale, in ritardo di quasi cinque anni, ha evitato al Paese una altrimenti certa procedura di infrazione. Processo e informazione, si sa, sono sposi litigiosi. Gli interessi non di rado sono in conflitto: da un lato la libertà di manifestazione del pensiero; dall’altro reputazione, riservatezza, dignità, equo processo, presunzione di non colpevolezza. Ciò in un mondo dei media a cui le vicende giudiziarie interessano soprattutto alle prime “battute”, quando gli inquirenti sono le fonti più informate, il cui punto di vista rischia spesso di essere l’unico. Gli effetti distorsivi sull’imparzialità del giudice, sull’attendibilità dei testimoni, sull’opinione pubblica costituiscono rischi più che concreti.

Il decreto persegue due direttrici principali: da un lato i rapporti tra Procure e stampa; dall’altro la redazione degli atti processuali. Si vieta all’autorità di indicare pubblicamente come colpevole l’imputato fino a sentenza definitiva e si impone alle Procure di limitarsi ai comunicati o, «nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti», alle conferenze stampa. Sarà sempre necessario chiarire la fase del procedimento e indicare il diritto dell’imputato a non essere ritenuto colpevole. Infine si introduce il divieto di assegnare alle indagini «denominazioni lesive della presunzione di innocenza».

Con riferimento alla seconda direttrice, invece, una nuova disposizione di non semplice interpretazione, l’art. 115 bis c.p.p., vieta, anche nei provvedimenti diversi dalle sentenze, di indicare indagato o imputato colpevoli prima dell’accertamento finale. Estrema cautela, inoltre, dovrà essere adoperata nelle ordinanze cautelari: il giudice dovrà limitare «i riferimenti alla colpevolezza della persona […] alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento».

L’impressione è che l’intervento normativo, pur animato da nobili intenti, vieti troppo in astratto e riesca a incidere poco nella pratica. Per scongiurare ipotesi di comunicazione distonica rispetto alla presunzione di non colpevolezza, infatti, si pretenderebbe di inaridirne una delle fonti, rispetto a fatti di notevole interesse pubblico. Inoltre, sul punto, esiste già una disciplina volta a evitare eccessivi personalismi da parte degli inquirenti. Tuttavia, questa, introdotta nel lontano 2006 con il D.lgs. n. 106 e ribadita nel 2008 dalle Linee guida approvate dal Csm, è rimasta pressoché inapplicata. Basti pensare che già ora ogni informazione sulle indagini proveniente dalla Procura dovrebbe essere attribuita in modo impersonale all’ufficio e nessun pubblico ministero potrebbe rilasciare dichiarazioni se non delegato dal Procuratore. Non è chiaro perché la novella dovrebbe avere sorte differente. Spicca l’antinomia tra un apparato normativo ricco di disposizioni – processuali, penali, civili, amministrative, deontologiche – e una prassi dedita alla loro sostanziale disapplicazione.

Anche sulla tecnica redazionale dei provvedimenti il decreto non convince. Si costringe chi deve motivare a complicate acrobazie verbali o a esercizi di ipocrisia argomentativa che in casi limite potrebbero risultare paradossali. Quando, ad esempio, un giudice dispone la custodia cautelare deve essere certo dell’esistenza di gravi indizi, che, allo stato degli atti, la condanna rappresenti, sia pure in prospettiva, una qualificata probabilità. Sarebbe stato forse più lineare stabilire l’obbligo per i giudici di indicare sempre la fase in cui pende il procedimento, sottolineando l’eventuale carattere relativo e provvisorio della decisione perché adottata, per esempio, senza contraddittorio con la difesa e senza un accertamento probatorio. Sempre meglio rischiare l’ovvio che imporre arabeschi che rischiano di ottenere una eterogenesi dei fini.

Rimaniamo dell’opinione che, in una società democratica, la via da seguire per gli uffici giudiziari non sia il silenzio, ma la parola meditata e misurata. Le buone intenzioni lastricano cattive strade.

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