Responsabilità

Se l'errore clinico incide su una situazione già compromessa il medico risponde solo dell'aggravamento

La Corte di appelo di Bari detta le regole per la determinazione del risarcimento

di Francesco Lauri

Quando le conseguenze dell'errore clinico incidono su una realtà del paziente già in parte compromessa dalla patologia curata in ospedale, il medico risponde solo dell'aggravamento causato dal suo errore e non della complessiva menomazione in essere, secondo il meccanismo di conto per "sottrazione". Lo ha precisato la Corte di Appelo di Bari con la sentenza n. 459/2023.

La decisione della Corte d'Appello di Bari
La sentenza in esame, resa dalla Corte d'Appello di Bari, affronta il tema della responsabilità medica avuto riguardo all'ipotesi in cui le conseguenze dell'errore medico incidano su una realtà propria del paziente già in parte compromessa dalla malattia trattata in ospedale.
È opportuno muovere dalla premessa per cui l'azione di responsabilità spiegata dal paziente-danneggiato nei confronti della struttura sanitaria deve essere correttamente qualificata come responsabilità contrattuale, in quanto l'attore agisce facendo valere l'inadempimento, da parte della struttura sanitaria, del contratto cd. "di spedalità" con lo stesso concluso, con conseguente applicazione di tutte le regole in tema di adempimento (articoli 1218, 1128, 1176, 2697 c.c.).
Ne deriva che la medesima risponde non solo in ordine al rapporto che essa instaura in maniera diretta con il paziente, ma anche per il fatto del proprio personale dipendente e ausiliario, qualora lo stesso abbia agito senza l'osservanza dei canoni di diligenza imposti dall'articolo 1176, II, c.c..
La natura contrattuale della responsabilità comporta che l'attore non è onerato di provare l'inadempimento o l'inesatto adempimento della struttura, gravando su quest'ultima l'onere di provare il proprio esatto adempimento.
La previsione dell'articolo 1218 c.c., però, solleva il creditore dell'obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) unicamente dall'onere di provare la colpa del debitore, ma non dall'onere di provare il nesso di causalità tra la condotta del debitore e il danno di cui alla domanda il risarcimento.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, in tema di responsabilità medica <<è onere del creditore-attore dimostrare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), l'esistenza del nesso causale, provando che la condotta del professionista è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", la causa del danno lamentato>> (Cass. civ., sez. III, 29 marzo 2022, n. 10050).
Non solo. Si precisa ancora in sentenza che nel settore del malpractice media, per dirsi superata la presunzione ex articolo 1218 c.c. non basta provare che l'evento di danno per il paziente sia una "complicanza" in quanto tale nozione (di rilievo nella letteratura medica) è priva di valore sul piano del diritto, nel cui ambito il peggiorare delle condizioni di salute di un paziente può ricondursi, esclusivamente, ad un fatto o prevedibile ed evitabile, in quanto tale ascrivibile a colpa del medico, oppure non prevedibile o non evitabile, che integra in sé gli estremi di una causa non imputabile.
Con particolare riferimento all'ipotesi in cui le conseguenze dell'errore clinico incidano su una realtà del paziente già, in parte, compromessa dalla patologia trattata in ospedale – argomenta ancora l'adita Corte - il medico risponde esclusivamente dell'aggravamento causato dal suo errore e non già della complessiva menomazione in essere, secondo il meccanismo di conto per sottrazione.

La quantificazione del danno
Si precisa così come il Giudice deve (salvo il ricorso all'equità correttiva):
- in primis, stimare in punti percentuali l'invalidità complessiva del paziente danneggiato convertendola in denaro;
- stimare, poi, in punti percentuali l'invalidità teoricamente preesistente all'illecito convertendola in denaro;
- infine, sottrarre il secondo importo dal primo.
In sentenza si dà così continuità – quanto alla materia del danno differenziale - ai principi affermati da Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28986 (e da ultimo ribaditi da Cass. civ., sez. VI - 3, ord., 29 novembre 2022, n. 35025; Cass. civ., sez. VI – 3, ord. 29 settembre 2022, n. 28327; Cass. civ., sez. III, 27 settembre 2021, n. 26117; Cass. civ., sez. III, 21 agosto 2020, n. 17555), secondo cui in tema di risarcimento del danno alla salute, la preesistenza della malattia in capo al danneggiato costituisce una concausa naturale dell'evento di danno ed il concorso del fatto umano la rende irrilevante in virtù del precetto dell'equivalenza causale dettato dall'articolo 41 c.p. sicchè di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno.

Concausa coesistente e concorrente
Può costituire concausa dell'evento di danno anche la preesistente menomazione, vuoi "coesistente", vuoi "concorrente", rispetto al maggior danno causato dall'illecito, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica ai sensi dell'articolo 1223 c.c..
In particolare, quella "coesistente" è, di norma, irrilevante rispetto ai postumi dell'illecito apprezzati secondo un criterio controfattuale (vale a dire stabilendo cosa sarebbe accaduto se l'illecito non si fosse verificato), sicchè anche di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno; viceversa, secondo lo stesso criterio, quella "concorrente" assume rilievo in quanto gli effetti invalidanti sono meno gravi, se isolata, e più gravi, se associata ad altra menomazione (anche se afferente ad organo diverso) sicchè di essa dovrà tenersi conto ai fini della sola liquidazione del risarcimento del danno e non anche della determinazione del grado percentuale di invalidità che va determinato comunque in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni.
In tema di liquidazione del danno alla salute, dunque, l'apprezzamento delle menomazioni policrone "concorrenti" in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall'illecito deve essere compiuto, come anticipato, stimando, prima, in punti percentuali, l'invalidità complessiva, risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall'illecito e poi quella preesistente all'illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro, con la precisazione che in tutti quei casi in cui le patologie pregresse non impedivano al danneggiato di condurre una vita normale lo stato di "validità" anteriore al sinistro dovrà essere considerato pari al cento per cento; procedendo infine a sottrarre dal valore monetario dell'invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente, fermo restando l'esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa secondo la cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, ove lo impongano le circostanze del caso concreto.
Le ragioni che giustificano tale metodo di calcolo sono le seguenti.
Sono le funzioni vitali perdute dalla vittima e le conseguenti privazioni a costituire il danno risarcibile, non il grado di invalidità, che ne è solo la misura convenzionale; tali privazioni (e le connesse sofferenze) progrediscono con intensità geometricamente crescente rispetto al crescere dell'invalidità, la misura convenzionale cresce invece secondo progressione aritmetica.
Ciò si riflette nel metodo di liquidazione che, dovendo obbedire al principio di integralità del risarcimento (art. 1223 c.c.), opera necessariamente, sia quando è disciplinato dalla legge, sia quando avvenga coi criteri introdotti dalla giurisprudenza, con modalità tali che il quantum debeatur cresce in modo più che proporzionale rispetto alla gravità dei postumi: ad invalidità doppie corrispondono perciò risarcimenti più che doppi.
Tale principio resterebbe vulnerato se, nella stima del danno alla salute patito da persona già invalida, si avesse riguardo solo all'incremento del grado percentuale di invalidità permanente ascrivibile alla condotta del responsabile.
Un punto di invalidità è uguale a quello cui si somma solo nella sua espressione numerica (che progredisce aritmeticamente), non nel sostrato reale (l'entità delle rinunce corrispondenti) che concorre a rappresentare, né, parallelamente, nella sua traduzione monetaria.

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