Civile

Integrazione del contradditorio nei procedimenti in camera di consiglio: valgono i principi enunciati con riferimento al giudizio ordinario

Lo ha affermato la Suprema Corte nell'ambito di un giudizio avente ad oggetto la dichiarazione dello stato di adottabilità

di Francesca Ferrandi*

Il caso. Con l' ordinanza n. 23313 , resa lo scorso 23 agosto 2021, la Cassazione ha ribadito, nell'ambito di un procedimento avente ad oggetto la dichiarazione dello stato di adottabilità, che i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità riguardanti l'integrazione del contradditorio, in riferimento al giudizio ordinario di cognizione, devono ritenersi applicabili anche ai procedimenti che si svolgono in camera di consiglio, in ossequio al canone costituzionale del giusto processo ed a garanzia del diritto di difesa.

In particolare, nel caso di specie, il ricorrente aveva adito la Suprema Corte per la cassazione della sentenza con cui la Corte di appello di L'Aquila aveva pronunciato l'inammissibilità del gravame da lui proposto avverso la sentenza emessa il 12 giugno 2019, con cui il Tribunale per i minorenni della medesima città aveva: dichiarato lo stato di adottabilità del figlio minore, nato da una relazione extraconiugale; affidato il piccolo al Servizio sociale e confermato la sospensione dei genitori dalla responsabilità genitoriale, con divieto di qualsiasi contatto con lo stesso.

La Corte di appello, premesso di aver ordinato l'integrazione del contradditorio nei confronti di un litisconsorte necessario, ha rilevato che nessuna parte aveva provato di avervi provveduto nel termine fissato. Il difensore dell'appellante, infatti, aveva depositato un plico spedito per raccomandata, recante la dichiarazione di irreperibilità del destinatario redatta dall'ufficiale postale, ma non aveva dimostrato, benché fosse stato invitato a farlo, che la consegna del plico all'ufficiale giudiziario avesse avuto luogo tempestivamente.

Il ricorrente, con l'unico motivo di impugnazione, ha denunciato la violazione o falsa applicazione degli artt. 291 e 331 c.p.c., in quanto, a suo dire, la notifica dell'atto di integrazione del contradditorio, non perfezionatasi per irreperibilità della destinataria, doveva ritenersi superata per effetto dell'ordine di rinnovazione con il rito degli atti irreperibili, impartito dalla Corte di appello all'udienza successiva, e della conseguente effettuazione della notifica presso il domicilio dalla stessa eletto per il giudizio di primo grado. Sempre secondo il ricorrente, poi, nei giudizi camerali introdotti con ricorso, l'omessa notifica dello stesso e del decreto di fissazione dell'udienza non comporta l'inammissibilità dell'impugnazione, ma solo la necessità di assegnare un nuovo termine per la notifica, a meno che la parte resistente non si sia costituita.

L'integrazione del contradditorio in cause inscindibili. L'art. 331 c.p.c. (Integrazione del contradditorio in cause inscindibili), assieme all'art. 332 c.p.c., regolamenta l'unità soggettiva del processo di impugnazione contro la stessa sentenza. Secondo le disposizioni in questione, al giudizio di impugnazione devono partecipare necessariamente gli stessi soggetti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, in modo che esso possa dirsi correttamente instaurato e al fine di evitare che si presentino una pluralità di impugnazioni, salvi i casi in cui siano possibili pronunce separate (c.d. cause scindibili, v. art. 332 c.p.c.).

L'obbligo di integrazione del contraddittorio si ha, in primo luogo, nel caso di cause inscindibili, ossia quelle riguardanti un unico rapporto, seppur con pluralità di parti: un fenomeno, quindi, collegato alla tematica del litisconsorzio necessario, tanto per ragioni di tipo sostanziale, che di tipo processuale. In particolare, le cause inscindibili sono quelle che hanno visto, in primo grado, una pluralità di parti, sia per eventi preesistenti (determinata da una situazione di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c.), sia per eventi sopravvenuti durante il giudizio di primo grado, in quanto: a) ad una delle parti sono succedute più persone; b) un terzo è stato chiamato a partecipare al giudizio a seguito dell'ordine del giudice o su istanza di parte; c) altre parti, portatrici di una posizione non scindibile con la posizione delle parti originarie, sono intervenute (per un approfondimento v. E. Merlin, Inscindibilità dei giudizi e riproposizione di domande fra litisconsorti nelle fasi di gravame, in Riv. Dir. Proc., 2013, 6, 1290).

Inoltre, l'obbligo di integrazione del contraddittorio si ha anche nell'ipotesi di cause dipendenti, vale a dire quelle legate dal vincolo della pregiudizialità, tale per cui la decisione dell'impugnazione del rapporto principale condiziona, influenza e pregiudica quella sul rapporto dipendente, o dal vincolo della garanzia (sul punto v. A. Carratta, Requiem per la distinzione fra garanzia propria e impropria in sede processuale, in Giur. It., 2016, e R. Tiscini, Garanzia propria e impropria: una distinzione superata, in Riv. Dir. Proc., 2016, 3, 827).

Orbene, nelle ipotesi in cui l'impugnazione, in questo tipo di cause, non sia stata proposta correttamente nei confronti di tutte le parti, il giudice deve verificare, durante la prima udienza di trattazione, l'integrità del contraddittorio ed ordinarne anche d'ufficio l'integrazione, a mezzo di una ordinanza e fissando altresì il termine entro il quale deve essere fatta la notificazione ed eventualmente la data dell'udienza di comparizione. Ne consegue, quindi, che, in caso di litisconsorzio, sostanziale o processuale, l'omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina automaticamente l'inammissibilità del gravame, bensì la necessità per il giudice di ordinare l'integrazione del contraddittorio, sulla base di quanto disposto dalla norma di interesse (sul punto cfr. Cass. Civ., 06 novembre 2019, n. 28562 ).

La soluzione del caso. La Suprema Corte, nell'esaminare il ricorso ha dapprima ricordato che in caso di integrazione del contradditorio, il termine per la notificazione del relativo atto, fissato dal giudice ex art. 331 c.p.c., ha carattere perentorio, non è prorogabile neppure sull'accordo delle parti e non è sanabile dalla tardiva costituzione della parte nei cui confronti tale integrazione doveva avvenire e la sua inosservanza deve essere rilevata d'ufficio; la sua violazione determina, quindi, per ragioni d'ordine pubblico processuale, l'inammissibilità dell'impugnazione (cfr. ex multis Cass. Civ., 4 dicembre 2018, n. 31316; Cass. Civ., 20 gennaio 2016, n. 891 e Cass. Civ., 23 luglio 2010, n. 17416 ).

Con riguardo alla natura del termine di cui all'art. 331 c.p.c., la norma de qua non lo qualifica espressamente come perentorio, contrariamente, per esempio, ad altre disposizioni, in parte simili, come l'art. 164 c.p.c. (per l'ipotesi dell'ordine di rinnovazione della citazione nulla in primo grado), o l'art. 102, comma II, c.p.c., (per il caso relativo all'integrazione del contraddittorio nei confronti delle parti necessarie in primo grado). Tuttavia, la sua perentorietà, ancorché non esplicita, si può desumere, come ribadito dalla Cassazione nel caso in esame, a fronte delle conseguenze della sua inosservanza, ossia che l'impugnazione è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti provvede all'integrazione nel termine fissato (cfr. art. 331, comma II, c.p.c.).
Il termine, quindi, non appare suscettibile di proroga, ragion per cui la sua scadenza determina la perdita della facoltà di provvedere all'integrazione del contraddittorio (sul tema per un approfondimento v. S. Menchini, Principio di preclusione e autoresponsabilità processuale, in Giusto proc. civ., 2013, 979 e segg.).
Inoltre, dato che il termine assegnato per il deposito dell'atto d'integrazione del contradditorio, di cui all'art. 331 c.p.c., deve essere qualificato come perentorio a differenza di quanto previsto dall'art. 371-bis c.p.c. (Deposito dell'atto di integrazione del contradditorio) per il giudizio di cassazione, la prova dell'ottemperamento dell'esecuzione dell'ordine deve essere fornita prima della chiusura della discussione davanti al Collegio, in modo che quest'ultimo possa controllarne la ritualità e la tempestività della relativa notifica (cfr. Cass. Civ., 09 luglio 2003, n. 10779 ).

Pertanto, nel caso in cui, come quello della pronuncia qui annotata, il giudice abbia pronunziato l'ordine di integrazione del contraddittorio e la parte onerata non vi abbia provveduto, o via abbia provveduto solo parzialmente, l'organo giudicante non può assegnare un nuovo termine per il completamento dell'integrazione; ciò equivarrebbe, infatti, alla concessione di una proroga del termine perentorio precedentemente fissato, vietata espressamente dall'art. 153 c.p.c., salvo che l'istanza di assegnazione di un nuovo termine, si fondi sull'esistenza, idoneamente comprovata, di un fatto non imputabile alla parte onerata o, comunque, risulti che la parte ignorava incolpevolmente il domicilio del soggetto nei cui confronti il contraddittorio doveva essere integrato (cfr. ex multis Cass. Civ., 11 aprile 2016, n. 6982; Cass. Civ., 22 giugno 2006, n. 14428 e Cass. Civ., 05 luglio 2001, n. 9090, in Resp. Civ. e Prev., 2001, 1224 con nota di R. Muroni) .

E tali principi secondo gli Ermellini, sebbene enunciati con riferimento al giudizio ordinario di cognizione, devono ritenersi applicabili anche ai procedimenti in camera di consiglio, come quello del caso di specie, avente ad oggetto la dichiarazione dello stato di adottabilità, "in ossequio al canone costituzionale del giusto processo ed a garanzia del diritto di difesa, i quali impongono indipendentemente dalla semplicità delle forme e dalla snellezza che contraddistinguono il procedimento camerale, che il provvedimento conclusivo sia adottato previa instaurazione del contradditorio nei confronti di tutti i soggetti interessati, soprattutto quando il rito in questione si applichi a procedimenti aventi ad oggetto la tutela di diritti soggettivi".

Conclusioni. Secondo la Suprema Corte, dunque, la mancata dimostrazione dell'avvenuta esecuzione dell'ordine di integrazione del contradditorio nel termine fissato dal giudice doveva ritenersi di per sé sufficiente a giustificare la dichiarazione di inammissibilità del gravame, a prescindere sia dall'esito positivo della rinnovazione (che la Corte di appello non avrebbe potuto disporre) che dalla comparizione personale della donna in udienza. Tale comparizione, infatti, a detta degli Ermellini, non è idonea a sanare la decadenza dal momento che la donna non solo non si era formalmente costituita in giudizio, ma anche a fronte del fatto che detta comparizione aveva avuto luogo dopo la scadenza del termine che era stato assegnato per l'integrazione del contraddittorio. Pertanto, alla luce di quanto sopra, la Cassazione ha rigettato il ricorso e il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

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*A cura di Francesca Ferrandi, Dottore di ricerca all'Università di Roma "Tor Vergata"

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