Penale

Per la liberazione condizionale del pentito non basta la collaborazione ma va provato il sicuro ravvedimento

A fronte di indici di stabile rieducazione il giudice se nega il beneficio deve motivare se ritiene che la restrizione subita non è congrua

di Paola Rossi

Il pentito di mafia, che abbia collaborato con la giustizia alla scoperta di gravissimi reati e alla condanna dei responsabili, per ottenere il beneficio della liberazione condizionale deve comunque dimostrare il proprio "sicuro ravvedimento". E non può solo far rilevare l'entità dei risultati di repressione criminale, raggiunti grazie alla propria collaborazione.
Infatti, per la concessione del beneficio il giudice deve acclarare l'esistenza di indici sintomatici di una stabile rieducazione raggiunta dal condannato. Non può però il giudice negare la liberazione condizionale fondando il suo parere negativo su un aprioristico rapporto proporzionale tra gravità dei delitti commessi dal condannato e lunghezza della detenzione fino a quel momento patita.

Come spiega la Cassazione - con la sentenza n. 35357/2022 - se il giudice di sorveglianza intende dare rilevanza alla durata della carcerazione ai fini del diniego del beneficio è comunque tenuto a fornire una piena motivazione sul fattore tempo per giustificarne la prevalenza sugli altri sintomi di un intrapreso percorso di emenda dalla vita criminale. Cioè, dice la Cassazione, non si può ritenere necessario un ulteriore periodo di messa alla prova della nuova scelta di vita senza fornire adeguate motivazioni.

Nel caso in esame, che riguarda uno dei più famosi pentiti di mafia, il giudice di sorveglianza affermava seccamente che l'entità e la gravità dei delitti di cui si era macchiato il condannato imponeva necessariamente che il percorso di rieducazione fosse lungo e proprozionato alla caratura criminale espressa. E che la nuova scelta di vita necessitava ancora di un congruo periodo di messa alla prova. In conclusione va detto che quando sia dimostrato il percorso di pentimento intrapreso dal condannato il giudice non può negare la liberazione senza motivazione puntuale.

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