Penale

I magistrati che «liberano» madri e figli dalle ’ndrine

di Roberto Di Bella e Luciano Trovato *

Le cronache italiane degli ultimi 30 anni sono costellate da fatti di sangue che hanno come protagonisti ragazzi immolati da un sistema criminale che induce bambini e adolescenti a indossare contemporaneamente i panni dei carnefici e delle vittime. È un fatto ormai riconosciuto che le organizzazioni mafiose, per lo svolgimento di specifiche attività illecite, reclutano ragazzi minorenni, per lo più provenienti da quartieri ad alta disoccupazione e da famiglie in condizioni di disagio.

Il cerchio familiare
Nella crisi della scuola, della famiglia e delle altre strutture sociali, le mafie sembrano spesso l’unico soggetto che riesce a dare un’identità e una parvenza di integrazione. Nel meridione (in Calabria, in particolare) le organizzazioni criminali hanno una base prevalentemente familiare: i giovani di queste famiglie hanno da sempre respirato aria di violenza e di prevaricazione, educati a una cultura di mafia funzionale ad assicurare continuità alla “famiglia”.

I minori nascono e crescono in contesti dove hanno visto uccidere i loro padri, fratelli, parenti. In questi casi, secondo il codice d’onore mafioso, deve scattare la vendetta, perciò violenza richiama violenza. Fin da piccoli i componenti di queste “famiglie” sono addestrati alla brutalità, all’uso delle armi e della forza anche nei confronti dei familiari più stretti, quando trasgrediscono le regole. In più occasioni si è assistito all’orrore di figli coinvolti nella scomparsa delle loro madri. “Colpevoli” di avere tradito l’onore della “famiglia”. Di non avere saputo aspettare - vedove bianche - i mariti detenuti in carcere. O di avere desiderato una vita libera dai vincoli del terrore.

In tali contesti anche le scelte più intime (fidanzamenti, matrimoni) sono condizionate dalla “famiglia” per suggellare sodalizi costruendo di fatto vere e proprie prigioni culturali. Il carcere è considerato un attestato di professionalità da esibire ai propri coetanei in libertà e, soprattutto, ai capi delle organizzazioni criminali.

Per un bambino crescere in contesti di mafia non vuol dire solo assorbire la negatività della dimensione valoriale sostenuta dalla sua famiglia, ma vuol dire anche subire la disincentivazione del processo naturale di progressivo distacco dal nucleo familiare di appartenenza e, senza neppure accorgersene, lo schiacciamento della propria individualità. È il gruppo familiare ad avere identità e non i singoli membri che lo compongono nelle loro diversità e nelle loro peculiarità.

Il ruolo della giustizia minorile
Ovviamente la semplice appartenenza a una famiglia mafiosa, qualora questa non trasmetta valori educativi indirizzati alla criminalità, non è presupposto sufficiente per l’intervento giudiziario, ma è anche vero che l’educazione dei figli non può essere lasciata al libero arbitrio dei genitori come se la tutela dell’infanzia dovesse fermarsi sulla soglia di casa della famiglia mafiosa.

I provvedimenti sulla responsabilità genitoriale che da qualche anno la giustizia minorile calabrese sta adottando hanno intercettato un bisogno sociale. Hanno dato uno scossone culturale a un sistema che sembrava intangibile.

Ci sono madri di ‘ndrangheta, stanche di lutti e carcerazioni, che hanno colto l’opportunità e si rivolgono alla giustizia nella speranza di un futuro diverso per loro e i figli. Ci sono adolescenti che si affidano al loro giudice, che rivendicano la loro libertà. Dimostrare che il futuro non è già scritto, ma da scrivere. Restituire dignità e pari opportunità a chi ha avuto la sfortuna di nascere in determinati contesti: questa la sfida (e l’opportunità) culturale e giuridica lanciata dalla giustizia minorile calabrese.

La nuova coscienza civica
Nei luoghi di mafia ti insegnano da piccolo l’ineluttabilità delle cose, l’impossibilità di cambiarle. Una rassegnazione che si estende purtroppo a molti settori della società civile e politica.

Oggi non è più così. Una nuova coscienza civile sta formandosi. La notizia dei provvedimenti del tribunale per i minorenni, dei primi risultati positivi e la rivolta delle madri hanno aperto una breccia. La necessità di rivalutare le strategie di contrasto culturale al crimine organizzato e di educazione alla legalità è diventata un’esigenza sempre più avvertita dopo anni di perplessità, critiche, dissensi e non più un’idea stravagante di uno sparuto gruppo di magistrati.

«Liberi di scegliere» è l’Accordo quadro - siglato dai ministri della Giustizia e dell’Interno, dalla Regione Calabria e dai Tribunali minorili - che prevede l’istituzione di équipe educative, formate da assistenti sociali e psicologi con specifica esperienza, che sostengano i giovani e i loro nuclei familiari. Una rete specializzata in grado di aiutare i ragazzi a riconoscere i loro bisogni più profondi, compressi dall’ideologia e dalla tradizione educativa mafiosa.

All’interno di questo progetto, in occasione del Congresso dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia che si terrà a Catanzaro dal 5 al 7 ottobre, verrà firmato un protocollo regionale d’intesa tra i tribunali per i minorenni di Reggio Calabria e Catanzaro e l’Unicef per la realizzazione di attività di sensibilizzazione in favore della tutela dei minori.

Accompagnare i giovani anche dopo la maggiore età, fino al raggiungimento di un’autonomia esistenziale e lavorativa, è l’obiettivo finale.

In Calabria, ma non solo, coltivare una speranza di riscatto non è più un’utopia.

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