Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra l'8 e il 12 maggio 2023

di Giuseppe Cassano

Nel corso di questa settimana le Corti d'Appello affrontano i temi dell'adozione di maggiorenne, dell'azione di reintegrazione, delle conseguenze risarcitorie sottese alla violazione della fedeltà coniugale, della tutela delle condizioni di lavoro e, infine, delle distanze tra edifici nell'ipotesi di demolizione ricostruzione.
I Tribunale, da parte loro, si soffermano in materia di responsabilità dell'amministratore di condominio, di inadempimento contrattuale, di violazione della privacy, di responsabilità aggravata (articolo 96 c.p.c.) e, infine, di responsabilità civile da circolazione stradale
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ADOZIONE
Adozione di persone maggiori di età – Requisiti – Finalità
(Cc, articoli 296, 311, 313; CEDU, articolo 8; legge 149/2001, articolo 30)
Con riferimento al consenso dell'adottante e dell'adottando, ai fini dell'adozione di persone maggiori di età, osserva in sentenza l'adita Corte d'Appello di Cagliari che il quadro normativo è quello risultante dai testi oggi vigenti dell'articolo 296 c.c. (secondo cui "per l'adozione si richiede il consenso dell'adottante e dell'adottando"), e dell'articolo 311, I, c.c. (secondo cui "il consenso dell'adottante e dell'adottato o del legale rappresentante di questo deve essere manifestato personalmente al presidente del tribunale nel cui circondario l'adottante ha la residenza").
Sottolinea la Corte l'abbandono della concezione "negoziale" del consenso qui prestato tenuto conto che l'articolo 30 L. n. 149/2001, nel sostituire l'articolo 313 c.c., ha scelto per la pronuncia di adozione la forma della sentenza, che è atto giurisdizionale costitutivo dello status e attributivo di diritti e di doveri, sicché non ha più senso configurare l'adozione come un mero atto di ricezione della volontà delle parti, fermo restando che l'Autorità Giudiziaria deve rilevare la consapevolezza e la libertà del volere.
L'istituto dell'adozione di maggiorenni ha perso la sua originaria connotazione diretta ad assicurare all'adottante la continuità della sua casata e del suo patrimonio, per assumere la funzione di riconoscimento giuridico di una relazione sociale, affettiva ed identitaria, nonché di una storia personale, di adottante e adottando, con la finalità di strumento volto a consentire la formazione di famiglie tra soggetti che, seppur maggiorenni, sono tra loro legati da saldi vincoli personali, morali e civili.
L'istituto, quindi, ha perso la sua originaria natura di strumento volto a tutelare l'adottante per assumere una valenza solidaristica che, seppure distinta da quella inerente all'adozione di minori, non è immeritevole di tutela.
Nell'adozione di maggiorenni, un'indebita ed anacronistica ingerenza dello Stato nell'assetto familiare può porsi in contrasto con l'articolo 8 CEDU, come interpretato nella sua accezione più ampia riguardo ai principi del rispetto della vita familiare e privata; invero, dove è accertata l'esistenza di un legame familiare, lo Stato deve in linea di principio agire in modo tale da permettere lo sviluppo di tale legame.
Corte di Appello di Cagliari, sentenza 9 maggio 2023, n. 3


POSSESSO
Azione di reintegrazione – Possesso – Spoglio
(Cc, articoli 1168, 2697)
La Corte d'Appello di Catanzaro sottolinea in sentenza che l'azione di reintegrazione (articolo 1168 c.c.) è concessa a favore di chi si afferma possessore di un bene e ha funzione recuperatoria, essendo diretta al ripristino della preesistente situazione di fatto.
Ai fini dell'accoglimento di tale azione sono necessari due requisiti: una situazione di possesso in capo al soggetto agente e lo spoglio, violento o clandestino, perpetrato dal soggetto contro cui l'azione è stata esperita. Ex articolo 2697 c.c., sul ricorrente incombe l'onere di dimostrare la ricorrenza di entrambi i presupposti.
Quanto al possesso, si rileva che ai fini dell'esercizio dell'azione de qua assume rilievo la situazione di fatto esistente al momento dello spoglio essendo così sufficiente un possesso qualsiasi, anche se illegittimo, abusivo o di malafede, purché abbia i caratteri della proprietà, o di altro diritto reale, e il potere di fatto non venga esercitato per mera tolleranza dell'avente diritto.
Quanto allo spoglio, si osserva che questo consta di due elementi: uno oggettivo e uno soggettivo. L'elemento oggettivo consiste nella privazione totale o parziale del possesso, violenta o clandestina, mentre l'elemento soggettivo è dato dall'animus spoliandi che consiste nella consapevolezza di sostituirsi nella detenzione o nel godimento di un bene, contro la volontà, manifesta o presunta, dello spogliato.
In relazione all'elemento soggettivo si precisa, in particolare, che la violenza e la clandestinità dell'azione, che implicano l'animus spoliandi, non sono insiti in ogni fatto materiale che determini la privazione dell'altrui possesso, ma conseguono solo alla consapevolezza di contrastare e di violare la posizione soggettiva del terzo.
Con riferimento agli atti di tolleranza del proprietario, che impediscono l'acquisto del possesso, si afferma che, una volta dimostrata la sussistenza del possesso, spetta a coloro che contestano il fatto del possesso l'onere di provare che esso derivi da atti di tolleranza.
La mera tolleranza è configurabile, di regola, nei casi di transitorietà e occasionalità, sicché nell'ipotesi di uso prolungato nel tempo di un bene si presume che non vi sia tolleranza ma esercizio di possesso, fatti salvi i rapporti tra le parti che siano caratterizzati da vincoli particolari, come i rapporti di parentela, in cui è più facile il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo.
Corte di Appello di Catanzaro, sezione I, sentenza 9 maggio 2023 n. 573

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Doveri matrimoniali – Fedeltà – Violazione – Risarcimento danni
(Cc, articolo 2059)
Evidenzia in sentenza la Corte d'Appello di Milano che la mera violazione dei doveri matrimoniali non integra. di per sé ed automaticamente, una responsabilità risarcitoria, dovendo, quanto ai danni non patrimoniali, riscontrarsi la concomitante esistenza di tutti i presupposti ai quali l'articolo 2059 c.c. riconnette detta responsabilità.
L'ordinamento giuridico, d'altronde, non prevede una specifica tutela per il bene "mantenimento della integrità della vita familiare" sino a prevedere che la sua lesione generi una responsabilità, e sia fonte di risarcimento diretto, per chi pone in essere condotte che pongano fine all'esistenza di tale legame.
Sarebbe peraltro estremamente rischioso – afferma ancora l'adita Corte - riconoscere incondizionatamente tale responsabilità in quanto ciò andrebbe a confliggere con altri diritti costituzionalmente garantiti quali la libertà di autodeterminarsi ed anche la stessa libertà di porre fine al legame familiare, riconosciuta nel nostro ordinamento fin dal 1970.
Ancor più questa affermazione è valida se si fa riferimento ad un soggetto terzo (il potenziale amante) estraneo alla coppia che non ha alcun vincolo od obbligo di fedeltà nascente da altro matrimonio.
Una responsabilità a carico dell'amante può essere affermata soltanto a fronte di particolari condotte poste in essere dallo stesso.
Precisamente, un amante, in quanto tale, non è ovviamente soggetto all'obbligo di fedeltà coniugale –il quale riveste un evidente carattere personale- e pertanto non potrebbe essere chiamato a rispondere per la violazione di tale dovere. Laddove si alleghi, correttamente, che il diritto violato non è quello alla fedeltà coniugale, bensì il diritto alla dignità e all'onore, non può escludersi, in astratto, la configurabilità di una responsabilità a carico dell'amante.
Essa, peraltro, potrà essere affermata soltanto se l'amante stesso, con il proprio comportamento e avuto riguardo alle modalità con cui è stata condotta la relazione extraconiugale, abbia leso o concorso a violare diritti inviolabili - quali la dignità e l'onore - del coniuge tradito, e purché risulti provato il nesso causale tra tale condotta, dolosa o colposa, e il danno prodotto.
Corte di Appello di Milano, sezione II, sentenza maggio 2023 n. 1509

LAVORO
Tutela delle condizioni di lavoro – Danni – Responsabilità – Onere della prova
(Cc, articoli 1218, 1374, 2087)
La sezione lavoro della Corte d'Appello di Brescia osserva come l'obbligo di sicurezza, posto a carico del datore di lavoro in favore del lavoratore, sia previsto in generale, con carattere atipico e residuale, dall'articolo 2087 c.c., e come tale responsabilità abbia carattere contrattuale, atteso che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ex articolo 1374 c.c., dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale.
Con la conseguenza che il riparto degli oneri probatori, e prima ancora di allegazione, nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell'articolo 1218 c.c., circa l'inadempimento delle obbligazioni contrattuali, da ciò discendendo che il lavoratore il quale agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro deve allegare e provare l'esistenza (ovviamente con riferimento alla vicenda concreta e specifica che lo ha interessato) dell'obbligazione lavorativa, l'esistenza del danno ed il nesso causale tra quest'ultimo e la prestazione, mentre è il datore di lavoro a dover provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente l'obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure idonee per evitare il danno.
Precisamente, incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di allegare e provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, senza che occorra anche l'indicazione delle norme antinfortunistiche violate o delle misure non adottate, mentre, quando il lavoratore abbia allegato e provato dette circostanze, grava sul datore di lavoro l'onere di allegare e provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
Se il lavoratore può limitarsi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, essendo onere del debitore-convenuto allegare e provare il proprio adempimento, o che l'inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile, questo non comporta l'affermazione tout court di una responsabilità oggettiva ex articolo 2087 c.c..
Corte di Appello di Brescia, sezione lavoro, senrtenza 10 maggio 2023, n. 137

IMMOBILI
Immobili – Demolizione e ricostruzione – Distanze
(legge 457/1978, articolo 31)
La Corte d'Appello di Roma afferma in sentenza il principio di diritto a tenore del quale, nel caso di ricostruzione di un immobile posto a distanza inferiore rispetto a quella legale, la servitù permane nei limiti dell'originaria costruzione mentre, nella ipotesi in cui il manufatto risulti volumetricamente difforme, con aumento della superficie di ingombro, la costruzione resta soggetta al rispetto delle norme che disciplinano la materia delle distanze.
La ricostruzione di un tale immobile non deve arrecare alcun "novum" esterno per consentirne l'edificazione ad una distanza difforme da quella stabilita dalla normativa vigente.
Alla luce della legge n. 457/1978, articolo 31, I, lett. d), si ha "ristrutturazione" nel caso in cui gli interventi, poichè comportanti modifiche esclusivamente interne, abbiano lasciato inalterati i componenti essenziali dell'edificio, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali e la copertura; si ha "ricostruzione" quando tali componenti essenziali dell'edificio preesistente siano venuti meno per evento naturale o volontaria demolizione e l'intervento consista nel loro esatto ripristino, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e in particolare senza aumenti della volumetria.
Ed allora, nel caso in cui tali aumenti sussistano, si tratterà di una "nuova costruzione", come tale sottoposta alla normativa in tema di distanze vigente al momento dell'edificazione.
Il che sta a significare che qualora gli interventi sul complesso edilizio preesistente non comportino variazioni della sagoma planivolumetrica, sono ammesse le distanze preesistenti.
Pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato, ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie, e, dall'altro, che la ricostruzione di esso, sia effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie.
Corte di Appello di Roma, sezione VIII, sentenza 10 maggio 2023 n. 3315

CONDOMINIO
Condominio negli edifici – Amministratore – Responsabilità
(Cc, articolo 1720)
Afferma in sentenza l'adito Tribunale di Roma il principio di diritto secondo cui il condomino che lamenti un malaccorto o, addirittura, infedele impiego del proprio denaro da parte dell'amministratore che l'abbia gestito è onerato della prova (da fornirsi attraverso tanto la contabilità - se regolarmente tenuta e approvata - e/o i versamenti eseguiti e le uscite comprovate da documenti di spesa quanto i movimenti del conto corrente) che l'esercizio in contestazione si sia in realtà chiuso, non già con debiti di gestione, ma con veri e propri avanzi di cassa, o puntualmente riportati nel bilancio successivo come partite in entrata (e poi, a un certo punto, "dispersi", senza un corrispondente, effettiva partita in uscita) oppure sin dall'inizio fraudolentemente occultati.
Resta inteso che, normalmente, grava sull'amministratore non solo l'onere di dimostrare, attraverso documenti, gli esborsi sostenuti nell'interesse del condominio, ma anche quello di dimostrare le modalità di esecuzione del mandato, così da consentire all'assemblea dei condomini una valutazione in ordine al rispetto dell'attività svolta secondo i canoni della buona amministrazione.
In particolare, poiché il credito per il recupero delle somme anticipate nell'interesse del condominio si fonda, ex articolo 1720 c.c., sul contratto di mandato con rappresentanza che intercorre tra i condomini, l'amministratore deve offrire la prova degli esborsi effettuati.
L'obbligo di rendiconto può legittimamente dirsi adempiuto quando il mandatario abbia fornito la prova, attraverso i necessari documenti giustificativi, non soltanto della somma incassata e dell'entità causale degli esborsi, ma anche di tutti gli elementi di fatto funzionali all'individuazione e al vaglio delle modalità di esecuzione dell'incarico
Va ulteriormente precisato che la responsabilità dell'amministratore di condominio, alla stregua di quella del professionista, non può affermarsi per il solo fatto del non corretto adempimento dell'incarico conferito, occorrendo verificare se il danno lamentato sia riconducibile alla condotta dello stesso, se un danno vi sia stato effettivamente e infine se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il condominio avrebbe evitato il pregiudizio lamentato, difettando altrimenti la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del professionista commissiva o omissiva ed il risultato derivatone.
Tribunale di Roma, sezione V, sentenza 8 maggio 2023 n. 7220

CONTRATTI
Inadempimento contrattuale – Diritto di recesso - Comportamento dei contraenti
(Cc, articolo 1385)
Secondo quanto afferma in sentenza il Tribunale di Modena il diritto di recesso previsto dall'articolo 1385 c.c. non è altro che uno speciale strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, alla quale lo accomunano tanto i presupposti (inadempimento della controparte), quanto le conseguenze (caducazione ex tunc degli effetti del contratto).
E così una domanda di risoluzione contrattuale correlata ad una richiesta risarcitoria contenuta nei limiti della caparra non è altro che una domanda di accertamento dell'avvenuto recesso.
Ciò comporta, secondo il Giudice, la necessità di procedere alla corretta qualificazione in iure delle domande solutorie al di là del loro dato formale, considerando l'interesse in concreto perseguito dalle parti.
Quando tale interesse consiste in quello di ottenere, con la caducazione del contratto, il beneficio previsto dall'articolo 1385, II, c.c. (di ritenere la caparra, o, specularmente, di conseguirne il doppio), per effetto dell'altrui inadempimento, tale beneficio non è possibile conseguire senza l'esercizio del diritto di recesso ed il conseguente accertamento dell'avvenuta risoluzione negoziale del contratto.
Nell'indagine sull'inadempienza contrattuale da compiersi al fine di stabilire se, ed a chi, spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l'interesse dell'altro al mantenimento del negozio, ovvero si sia reso responsabile delle trasgressioni che, per numero o per gravità ovvero per entrambe le cause, si rivelino idonee a turbare il sinallagma contrattuale.
Tribunale di Modena, sezione II, sentenza 9 maggio 2023 n. 749

TUTELA DELLA PRIVACY
Violazione privacy – Dati sanitari – Risarcimento danni
(Cc, articoli 1218, 1223, 2043, 2056)
Innanzi al Tribunale di Crotone è chiesta la condanna di una azienda sanitaria al risarcimento dei danni patiti dagli attori i quali, dopo essersi sottoposti a tampone rinofaringeo, con conseguente accertata positività al Covid-19, deducevano che tale risultato era stato diffuso sui circuiti social.
Nel rigettare la domanda di parte attrice l'adito Giudice ricorda che, ai fini della risarcibilità del danno ex articolo 1223 c.c., in relazione all'articolo 1218 c.c. o agli articoli 2043 e 2056 c.c., il creditore o il preteso danneggiato deve allegare, in relazione a specifici fatti concreti di cui deve essere fornita la prova, non solo l'altrui inadempimento ovvero allegare e provare l'altrui fatto illecito, ma in entrambi i casi deve pur sempre allegare e provare l'esistenza di una lesione, cioè della riduzione del bene della vita (patrimonio, salute, immagine, ecc.) di cui chiede il ristoro, e la riconducibilità della lesione al fatto del debitore o del danneggiante. In ciò appunto consiste il danno risarcibile, che è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente o illecita; in difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria manca di oggetto.
Giusta il principio ermeneutico basato sul concetto di danno-conseguenza, in contrapposizione a quello di danno-evento, ed escludendosi l'ipotizzabilità di un risarcimento automatico e di un danno in re ipsa, così da coincidere con l'evento, è evidente che la domanda risarcitoria deve essere provata, sia pure ricorrendo a presunzioni, sulla base di conferente allegazione: non si può invero provare ciò che non è stato oggetto di rituale ed adeguata allegazione.
Con la precisazione che tale insegnamento trova applicazione anche allorquando il fatto lesivo coincida con la lesione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti.
Ciò è conforme alla funzione che innerva il sistema della responsabilità civile, atteso che il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto dall'ordinamento con finalità meramente punitive ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso ed, al contempo, l'ordinamento non consente l'arricchimento ove non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro.
Tribunale di Crotone, sezione I, sentenza 10 maggio 2023 n. 337


RESPONSABILITÀ E RISARCIMENTO
Responsabilità aggravata – Fattispecie risarcitoria – Fattispecie sanzionatoria
(Cc, articolo 2043; Cpc, articoli 91, 96)
Il Tribunale di Milano esamina (tra le altre) la domanda di responsabilità aggravata (formulata dalla ricorrente) ex articolo 96 c.p.c. osservando così come tale norma (I comma) sia considerata una fattispecie risarcitoria con funzione compensativa del danno cagionato dal cd. illecito processuale, derivante dalla proposizione di una lite temeraria.
Essa presuppone la soccombenza nel grado di giudizio in cui è disposta e si configura come una species riconducibile al genus della responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 c.c..
L'articolo96, III c.p.c., a differenza delle pronunce di tipo risarcitorio di cui ai commi I e II, ha una funzione sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti.
Chiarendo l'ipotesi di cui al comma III il Tribunale adito precisa che trattasi di un peculiare strumento sanzionatorio che consente al Giudice di liquidare a carico della parte soccombente, anche d'ufficio, una somma ulteriore rispetto alle spese del giudizio.
Si giustifica così la natura non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) ma, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive, della disposizione de qua.
La citata norma del codice di rito fa, infatti, riferimento alla condanna al «pagamento di una somma», segnando così una netta differenza terminologica rispetto al «risarcimento dei danni», oggetto della condanna di cui ai suoi primi due commi.
Non solo. Configurando la condanna di cui al III comma una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex commi I e II (e con queste cumulabile), la stessa non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'aver agito o resistito pretestuosamente.
Tribunale di Milano, sezione II – fall., sentenza 10 maggio 2023 n. 3797

CIRCOLAZIONE STRADALE
Circolazione stradale – Assenza di scontro tra veicoli – Responsabilità – Presunzioni
(Cc, articoli 1227, 2054, 2056)
Intervenuto in materia di danni da circolazione stradale, osserva l'adito Tribunale di Rimini che la circostanza che non vi sia stato scontro tra i veicoli impedisce l'applicazione della presunzione di uguale concorso di colpa ex articolo 2054, II, c.c., ma non anche la presunzione di responsabilità prevista primo comma della medesima disposizione.
Tale presunzione di responsabilità del conducente coinvolto opera a condizione che sia accertato il nesso di causalità tra la circolazione del veicolo e il danno e può ritenersi superata solo nel caso in cui lo stesso (conducente) dia prova di aver fatto tutto il possibile per evitare l'evento dannoso, o quando dalle modalità del fatto si evinca con certezza che in alcun modo egli avrebbe potuto evitare il sinistro.
Ne consegue che l'accertamento della condotta colposa del danneggiato non è sufficiente per affermare la sua esclusiva responsabilità, essendo necessario, altresì, che il conducente vinca la presunzione di colpa posta a suo carico dall'articolo 2054, I, c.c., dando la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, tenendo conto che a tal fine, a nulla rileva l'anomalia della condotta del danneggiato, ma occorre dimostrare che la stessa non fosse ragionevolmente prevedibile e che il conducente avesse adottato tutte le cautele necessarie in base al caso concreto, anche sotto il profilo della velocità con cui il veicolo procedeva.
Ne deriva che la responsabilità del conducente può essere esclusa solo se risulti provato che non vi era, da parte di quest'ultimo, alcuna possibilità di prevenire l'evento, situazione ricorrente allorché la vittima (solitamente, un pedone) abbia tenuto una condotta imprevedibile e anormale, sicché l'automobilista si sia trovato nell'oggettiva impossibilità di avvistarla e comunque di osservarne tempestivamente i movimenti.
In caso di investimento di un pedone, inoltre, la prova liberatoria, che al conducente spetta fornire, è particolarmente rigorosa, tanto che la responsabilità di quest'ultimo non viene meno neppure nel caso in cui il pedone abbia repentinamente attraversato la strada, sempre che tale condotta anomale del pedone fosse - per circostanze di tempo e luogo - ragionevolmente prevedibile.
Qualora il conducente non riesca a vincere la presunzione di colpa, la condotta colposa del danneggiato può venire in rilievo per ridurre la percentuale di responsabilità, a norma dell'articolo 1227 c.c., applicabile anche alla responsabilità per fatto illecito in forza del richiamo contenuto nell'articolo 2056 c.c.
Tribunale di Rimini, sentenza 10 maggio 2023, n. 447

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