Penale

Abuso d’ufficio, la riforma resta un’occasione sprecata

Un vero e proprio affossamento della fattispecie, peraltro con efficacia retroattiva ex articolo 2 comma 2 del Codice penale

di Daniele Piva

Dopo quelle del 1990 e del 1997, col decreto Semplificazioni (articolo 23 Dl 76/20 convertito in legge 120/20) si è attuata l’ennesima riforma dell’abuso d’ufficio (frattanto introdotto, col Dlgs 75/20, come reato-presupposto della responsabilità degli enti ma solo ove offenda interessi finanziari dell’Unione europea) diretta a delimitarne l’ambito di applicazione in corrispondenza di una significativa riduzione del sindacato del giudice penale sull'esercizio della discrezionalità del pubblico agente (come similmente avvenuto in tema di responsabilità erariale con l’articolo 21 Dl 76/20, per fatti commessi dal 17 luglio 2020 al 31 dicembre 2021).

La ratio è, in particolare, quella di prevenire la “paura della firma” connessa al rischio non già di condanne (pochissime) quanto di indagini e processi (troppi), con inevitabili ricadute disciplinari e reputazionali.

Testualmente, gli interventi sull’articolo 323 del Codice penale, appaiono di portata dirompente, incentrandosi sulla violazione di «specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità» (espressione, questa ultima, mutuata dall’articolo 31 comma 3 del Codice di giustizia amministrativa). Fuori, dunque – come, da ultimo, incidentalmente chiarito dalla Corte di cassazione sezione VI, 442/2021 - le norme di regolamento (salvo, come già precisato in Cassazione 31873/2020 a proposito di violazioni urbanistiche, quelle richiamate dalla legge come presupposti di fatto) così come i principi di imparzialità e di buon andamento dell’articolo 97 Costituzione o dell’articolo 1 legge 241/90 e dentro solo l’inosservanza di doveri vincolati quanto all’an, al quid e al quomodo o, semmai, quei fenomeni di eccesso di potere per difetto di attribuzione nei quali la condotta miri esclusivamente a realizzare interessi privatistici collidenti con quelli istituzionali che legittimerebbero altrimenti l’esercizio della discrezionalità.

Un vero e proprio affossamento della fattispecie, peraltro con efficacia retroattiva ex articolo 2 comma 2 del Codice penale, destinata a funzionare soltanto con riguardo ad attività di mera esecuzione oppure vincolata. Se non fosse per la conseguente riespansione dell’altra modalità di abuso, non toccata dalla riforma (Cassazione 32174/2020) e oggi di rinnovato vigore, dell’omessa astensione «in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti» (foss’anche da norme sublegislative) che, per converso, necessariamente postula margini di discrezionalità.

Al di fuori dei casi rientranti nel nuovo abuso d’ufficio lo spazio potrebbe essere poi riempito tramite fattispecie diverse: dall’omissione in atti d’ufficio (articolo 328 del Codice penale) sino al peculato (articolo 314 del Codice penale) quantomeno ove si disponga di risorse pubbliche a favore di terzi, con relativo innalzamento, in quest’ultimo caso, del trattamento sanzionatorio nonché applicazione delle pene accessorie dell’articolo 317-bis del Codice penale e del regime dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario.

Lunga e impervia appare dunque la strada per affermare un’abolitio criminis, essendo la novella destinata a produrre, per lo più, fenomeni di mera abrogatio sine abolitione, con conseguente applicazione della nuova disciplina a fatti commessi prima del 17 luglio 2020 solo se in concreto più favorevole e fatto comunque salvo il limite del giudicato.

La sensazione, in altri termini, è che, di fronte a una progressiva deriva ermeneutica dell’articolo 323 del Codice penale, per fare troppo si sia fatto poco e male, tratteggiando un abuso quasi legislativamente impossibile per riesumare de facto figure già espunte dall’ordinamento trent’anni fa, come quelle del peculato per distrazione e dell’interesse privato in atti d’ufficio. Anziché metter mano al caos delle sottese regole amministrative caratterizzate, a seconda dei casi, da antinomie normative, sovrapposizione di competenze, moltiplicazione delle procedure e soprattutto dalla carenza di controlli interni in grado di prevenire a monte ogni possibile contestazione. Questa sì, sarebbe stata una riforma di autentica “semplificazione”.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©