Penale

Appello, con la riforma rischio di ripetizione del primo grado

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di Massimo Ceresa-Gastaldo

Un giusto processo d’appello, riservato a pochi. Questo il dichiarato obiettivo di alcune delle più significative disposizioni in tema di giudizio di secondo grado contenute nella riforma varata mercoledì scorso dal Parlamento: assicurare la piena conformità del mezzo ai principi della Cedu e allo stesso tempo (e soprattutto) ridurre drasticamente il lavoro delle corti.

Un risultato al quale negli ultimi tempi aveva già mirato la Cassazione. Impazienti di fronte al ritardo del legislatore nel licenziare norme concepite sin dal 2013 (da apposita commissione ministeriale, assai vicina a Piazza Cavour), le Sezioni unite avevano decretato applicazioni ante litteram dei nuovi congegni, desumendone in via interpretativa l’esistenza nel codice. Ma le disposizioni appena varate vanno (consapevolmente o meno) ancora più in là. L’appello penale, sinora strutturato non come ripetizione del processo, ma come riesame critico e selettivo della decisione di primo grado, condotto tendenzialmente sugli atti, è destinato a cambiare radicalmente connotati. Quando ad impugnare l’assoluzione è il pubblico ministero, si dovrà reiterare l’intera istruttoria dibattimentale, e non solo la singola prova “decisiva” che giustifichi il ribaltamento. Benché riferita al solo appello del proscioglimento, è chiaro che la nuova norma non potrà che avere portata più ampia. Una volta affermata la necessità della “prova viva”, perché mai la si dovrebbe negare all’imputato che chieda la riforma della condanna? O allo stesso pubblico ministero, che pure invochi la riforma della condanna, ma in peius? L’ingigantimento del giudizio, trasformato in una riedizione del primo, è evidente.

Resta da capire se un simile effetto risponda davvero ad esigenze di garanzia o ai dicta di Strasburgo. In realtà, né alle une né agli altri. Che ripetere l’esame di un testimone, già sottoposto in precedenza ad esame incrociato, porti ad un risultato più attendibile è tutto da dimostrare. Anzi: il fattore tempo e il pesante condizionamento che la prima esperienza irrimediabilmente esercita sulla fonte, fanno ritenere il contrario. Ma non è vero neppure che la replica della prova dichiarativa sia un imperativo della Cedu. Ancora di recente (caso Kashlev v. Estonia del 2016) la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha ribadito che lo “statuto convenzionale” della rinnovazione istruttoria non è affatto rigido. Nessuna violazione dell’articolo 6, se l’ordinamento comunque assicura adeguate garanzie (come l’obbligo per il giudice di appello di “motivazione rafforzata”, previsto da tempo anche nel nostro sistema) contro arbitrarie o irragionevoli valutazioni della prova. Per contro, mentre il processo viene appesantito, senza in fondo migliorarne la qualità, si pretende di recuperare l’efficienza perduta tagliando drasticamente il numero dei giudizi. Sotto le mentite spoglie della semplificazione, si innalza la soglia di accesso al rimedio, grazie all’irrigidimento dei requisiti formali. L’atto di appello, da strumento per attivare un riesame di merito della vicenda, diventa una sorta di ricorso per vizio di motivazione della sentenza, sotto la spada di Damocle dell’inammissibilità per difetto di forma. Sprovvisto com’è di adeguati limiti, il filtro rischia di diventare un mezzo di selezione arbitraria dei processi, affidato al concetto, pericolosamente vago e relativo, di “specificità” dei motivi.

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