Autotutela, legittima l’astensione dai turni concordati se il datore non paga l’indennità
Per la Cassazione, sentenza 9526/2025, l’espressione “attività sindacali” deve essere intesa in senso ampio. Attenzione, dunque, ai casi in cui il datore sanziona in modo individuale comportamenti riconducibili ad una forma di protesta organizzata
Con una articolata ed esaustiva sentenza (n. 9526/2025), i giudici di legittimità ribadiscono un importante e non sempre scontato principio: la legittimità di forme di autotutela collettiva diverse dall’esercizio del diritto di sciopero, essendo quest’ultimo solo una delle manifestazioni in cui si può estrinsecare l’azione collettiva/sindacale per la difesa degli interessi dei lavoratori.
Il caso è sicuramente interessante. Nell’ambito di un conflitto aziendale, un gruppo di lavoratori veniva licenziato per insubordinazione consistita nel non aver osservato i turni orari predisposti dal datore di lavoro sulla base di un accordo di secondo livello ma bensì quelli diversi previsti dal contratto collettivo applicato e ciò al fine di protestare contro l’intenzione datoriale di non voler erogare la relativa indennità concordata a suo tempo con il sindacato.
La Corte territoriale annullava i licenziamenti escludendo l’ipotesi di insubordinazione sia perché la prestazione era stata comunque accettata e retribuita dal datore di lavoro e sia perché mancava l’elemento soggettivo della condotta contestata atteso il carattere collettivo dell’azione. La stessa Corte escludeva però anche la natura discriminatoria e ritorsiva dei recessi e dunque la nullità degli stessi, poiché i giudici ritenevano che l’azione attuata dai lavoratori non fosse da considerarsi lecita in quanto, non potendo essere configurata come uno sciopero, si poneva al di fuori delle forme di autotutela collettiva che l’ordinamento riconosce e garantisce.
Entrambe le parti chiedevano la cassazione della sentenza; in particolare i lavoratori proponevano ricorso incidentale insistendo sul carattere discriminatorio e ritorsivo dei licenziamenti in questione insistendo sulla declaratoria di nullità.
La Corte di legittimità, dopo aver escluso che la fattispecie in questione potesse essere ricondotta all’esercizio del diritto di sciopero mancandone l’elemento essenziale dell’astensione - anche solo parziale - dal lavoro, ha cassato la sentenza della Corte territoriale laddove non ha considerato che sia la Costituzione che diverse altre fonti sovranazionali tutelano, non solo l’esercizio del diritto di sciopero, ma anche - e più in generale - ogni azione collettiva qualora essa sia posta in essere con finalità “sindacali” ossia intese a far valere diritti o rivendicazioni dei lavoratori dipendenti, da considerarsi lecita fermo restando i medesimi limiti che incontra il diritto di sciopero ovvero il rispetto delle posizioni soggettive concorrenti quali il diritto alla vita, all’incolumità personale nonché alla libera iniziativa economica.
Sul punto, la Suprema Corte ha opportunamente ricordato come nel concetto di libertà sindacale di cui all’art. 39 della Costituzione rientra la più ampia possibilità di scelta delle forme organizzative nonché delle modalità di esercizio dell’azione collettiva, se è vero come è vero che “il sindacato ha nel conflitto e nelle relative rivendicazioni la sua ragion d’essere”.
Peraltro, aggiunge la Corte, il diritto di intraprendere azioni collettive per la difesa e la rivendicazione dei propri interessi è espressamente riconosciuto ai lavoratori anche da specifiche norme sovranazionali quali l’art. 6 della Carta Sociale Europea e gli artt. 13 e 28 rispettivamente della Carta Comunitaria Europea e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Del resto, la stessa Corte, in sede di esegesi dell’art. 4 della L. n.604/66 che sanziona con la nullità i licenziamenti discriminatori in ragione, tra le altre, della partecipazione ad attività sindacali, aveva già avuto modo di chiarire in diversi precedenti pronunciamenti (Cass. n. 73331/98 e Cass. n. 9950/2005) che l’espressione “attività sindacali” deve essere intesa in senso ampio “ricomprendo anche quei comportamenti che, al di fuori di iniziative formalmente assunte da un sindacato, siano comunque finalizzati a far valere posizioni e rivendicazioni dei lavoratori dipendenti” purché, ovviamente, non attuate con forme di violenza o attraverso azioni che possano avere un rilevo penale.
Occorrerà dunque prestare particolare attenzione tutte le volte in cui un datore di lavoro intenda sanzionare in forma individuale un comportamento che per contesto, sequenza cronologica degli eventi, caratteristiche e finalità possa essere ricondotto all’esercizio di una legittima forma di protesta organizzata per la tutela di un interesse collettivo di natura sindacale.
* FerrianiPartners