Trattamento dei dati rinvenuti sui profili social del dipendente, un interessante caso al vaglio del Garante
A parere del Garante Privacy i commenti affidati a WhatsApp e Facebook devono sempre intendersi coperti da una aspettativa di riservatezza, tale da rendere illecito l’eventuale trattamento da parte del datore di lavoro
Con un interessante provvedimento del 21 maggio 2025, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha sanzionato una società autostradale, contestando di avere illecitamente trattato dati personali di un dipendente.
Nel caso di specie, alla società erano pervenuti messaggi e contenuti, considerati di rilevanza disciplinare, scritti dal dipendente sulla propria pagina Facebook o estrapolati da conversazioni avvenute su WhatsApp o Telegram.
La società si difendeva invocando il diritto all’esercizio della propria potestà disciplinare, conformemente allo Statuto dei Lavoratori, in quanto i citati messaggi non erano stati il frutto di attività investigative vietate del datore di lavoro, ma erano stati consegnati a quest’ultimo da un’altra dipendente, destinataria di quelle comunicazioni o facente parte delle amicizie di Facebook.
In particolare, la società invocava un precedente provvedimento dell’Autorità Garante, numero 202 del 20 aprile 2017, ove il Garante aveva ritenuto che il trattamento posto in essere dal datore di lavoro in un caso analogo a quello in esame fosse lecito, con provvedimento poi confermato dal Tribunale e dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 15161/2021.
Nel recente provvedimento dell’Autorità in commento, invece, il Garante adotta un orientamento apparentemente opposto a quello precedente assunto, sancendo che le frasi scritte dal dipendente su applicativi WhatsApp e Facebook devono sempre intendersi coperti da una aspettativa di riservatezza dell’autore di quelle frasi, tale da rendere illecito l’eventuale trattamento da parte del datore di lavoro.
L’orientamento che ha esteso le garanzie costituzionali poste a presidio della segretezza della corrispondenza anche alle nuove forme di comunicazioni, come SMS o messaggi telematici su WhatsApp, Telegram e simili, è stato in effetti abbracciato anche dalla giurisprudenza di legittimità con pluralità di pronunce, da ultimo con ordinanza 5334/2025. In quest’ultima pronuncia si è stabilito che le frasi affidate a una chat privata non sono utilizzabili a fini disciplinari dal datore di lavoro che ne sia fortuitamente venuto a conoscenza.
Tuttavia, sembra doversi distinguere il caso di SMS o messaggi trasmessi tramite le citate applicazioni – riconducibili al concetto di corrispondenza e quindi coperti dalle relative garanzie costituzionali – rispetto al caso di scritti pubblicati tramite post o commenti su Facebook o altri social network.
In quest’ultimo caso, infatti, appare discutibile ritenere che i contenuti pubblicati siano coperti dalle garanzie costituzionali previste in materia di corrispondenza, sembrando più corretto ritenere che il datore di lavoro potrebbe a pieno titolo acquisire – e quindi trattare - eventuali commenti fortuitamente ricevuti da un terzo e rilevanti disciplinarmente, trattandosi di trattamento necessario per esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento in materia di diritto del lavoro.
Nessuna aspettativa di riservatezza sembra del resto invocabile da chi consapevolmente affidi commenti e contenuti a post pubblicati su Internet o sui social network, che di regola possono essere condivisi, commentati e oggetto di dibattito, a prescindere dal fatto che il profilo dell’utente sia pubblico o accessibile soltanto ai c.d. “amici”.
Secondo la giurisprudenza di legittimità e della Corte Costituzionale, infatti, il concetto di corrispondenza presuppone un messaggio segreto destinato a un numero ristretto di persone, come ad esempio una lettera o un messaggio, ciò che non può dirsi di un post pubblicato sui social network.
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*Avv. Alessandro Candini – Studio Legale Finocchiaro