Lavoro

Avvocati, la "collaborazione" dell'amico può costare cara allo studio

Per la Cassazione, n. 23324/2021, se c'è subordinazione scattano le garanzie contrattuali ed economiche<br/>

di Francesco Machina Grifeo

Chiamare una amica o conoscente a "dare una mano" nello studio legale può rivelarsi molto costoso per l'avvocato qualora la prestazioni assuma i caratteri del lavoro subordinato a prescindere dall'esistenza di un contratto ed anche dagli "accordi" presi dalle parti. Quello che conta infatti è come si è determinato in concreto il rapporto, dando priorità alle modalità effettive di svolgimento del lavoro. La Corte di cassazione, sentenza n. 23324 del 24 agosto scorso, ha così definitivamente respinto il ricorso di una coppia di avvocati nei confronti di una loro conoscente impiegata per circa 6 anni all'interno dello studio confermandone così la condanna a pagare circa 53mila euro, oltre accessori, a titolo di differenze retributive.

Secondo la Suprema corte, infatti, la Corte di merito ha "condivisibilmente" reputato che la donna avesse fornito la prova relativa al requisito della "eterodirezione" mentre "l'eventuale presenza di un pregresso rapporto di amicizia tra le parti non esclude l'esistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata".

La Cassazione argomenta che il caso ripropone la "vexata quaestio della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato in una fattispecie che, per alcuni versi, presenta dei connotati peculiari". Ed aggiunge che deve "prendersi atto che oggi i due cennati tipi di rapporto non compaiono che raramente nelle loro forme e prospettazioni primordiali e più semplici, in quanto gli aspetti molteplici di una vita quotidiana e di una realtà sociale in continuo sviluppo e le diuturne sollecitazioni che ne promanano hanno insinuato in ognuno di essi elementi per così dire perturbatori che appannano, turbano, appunto, la primigenia simplicitas del ‘tipo legale' e fanno dei medesimi, non di rado, qualcosa di ibrido e, comunque, di difficilmente definibile".

In questo contesto, prosegue la Corte, il "nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è quindi vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione (Cass. n. 812/1993)". Il primario parametro distintivo della subordinazione, dunque, "deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall'effettivo svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell'art. 1362, secondo comma, c.c.), ma anche ai fini dell'accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell'attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata".

Del resto, continua la decisione, il ricorso al dato della "concretezza e della effettività" appare condivisibile anche in considerazione della "posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro".

Mentre (come chiarito anche dalla sentenza n. 7024/2015) gli indici di subordinazione rilevanti sono: "la retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa; l'orario di lavoro fisso e continuativo; la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali; il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia; l'inserimento nell'organizzazione aziendale". Elementi tutti da provare da parte del lavoratore e che in questo caso sono stati ritenuti accertati.

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