Avvocati, congrua la parcella agganciata alla domanda anche se il valore della causa viene ridimensionato
Lo ha chiarito la Cassazione, ordinanza n. 3687, puntando l'accento sulla non arbitrarietà della richiesta iniziale
La parcella dell'avvocato determinata sulla base della domanda non può ritenersi sproporzionata semplicemente perché la liquidazione del danno è stata poi di molto inferiore a quanto richiesto inizialmente. Se infatti al momento della proposizione dell'azione giudiziale, la richiesta, sulla base degli elementi a disposizione, risultava congrua e la causa complessa, il legale ha comunque diritto all'importo anche a fronte di un risarcimento di molto inferiore. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 3687 depositata oggi, respingendo il ricorso di un'infermiera condannata a pagare circa 14mila euro di spese legali per un causa professionale in cui lamentava gravi danni alla salute, successivamente ridimensionati da una diversa Ctu.
La ricorrente lamentava che la liquidazione del compenso da parte del Tribunale "non teneva conto dell'effettivo valore della controversia, quale emergente dalla somma in concreto riconosciuta alla cliente all'esito del giudizio di merito". Il Tribunale, dunque, "non avrebbe ravvisato quella manifesta sproporzione, che consente appunto di adeguare la liquidazione al reale valore della lite".
La Suprema corte ricorda che nei rapporti tra avvocato e cliente "sussiste sempre la possibilità di concreto adeguamento degli onorari al valore effettivo e sostanziale della controversia, ove sia ravvisabile una manifesta sproporzione rispetto a quello derivante dall'applicazione delle norme del codice di rito". Il giudice dunque "è chiamato a verificare, di volta in volta, l'attività difensiva che il legale ha svolto, tenuto conto delle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l'importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo ovvero se lo stesso si riveli del tutto inadeguato all'effettivo valore della controversia, perché, in tale ultima eventualità, il compenso preteso alla stregua della relativa tariffa non può essere ritenuto corrispettivo della prestazione espletata".
Tornando al caso specifico, prosegue la Corte, "l'iniziale quantificazione della domanda in un importo, poi, rivelatosi superiore a quanto in concreto liquidato, non era frutto di una decisione arbitraria, atteso che il quadro probatorio inizialmente a disposizione della parte, in quanto anche corroborato da una consulenza tecnica di parte, avuto riguardo alle patologie delle quali l'infermiera denunciava di essere stata vittima a seguito dell'attività lavorativa espletata, deponeva per la plausibilità di una richiesta risarcitoria di importo corrispondente a quello indicato nell'atto introduttivo del giudizio, essendo stata la riduzione frutto di una diversa valutazione del CTU nominato in corso di causa, poi recepita in sentenza".
Non solo, il Tribunale ha altresì evidenziato la "particolare complessità della controversia e la delicatezza della vicenda sostanziale", cosicché "l'iniziale determinazione del valore della domanda non era arbitraria o scollegata da qualsivoglia parametro oggettivo".
Accolto invece il ricorso contro la condanna a pagare gli interessi nella misura prevista dalla legislazione relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (4 comma, 1284 c.c., introdotto dall'art. 17 comma 1 del Dl n. 132/2014) in quanto applicabile solo ai procedimenti iniziati dal 10 novembre 2014 (la controversia venne introdotta nel 2011).
Né può ritenersi direttamente applicabile la disciplina sui ritardi nei pagamenti (Dlgs n. 231/2002) dal momento che riguarda le controversie commerciali, e cioè "i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo". L'assistenza prestata riguardava una vicenda processuale di una persona fisica.
Inoltre, sul piano procedurale, la II Sezione ricorda che anche in seguito all'entrata in vigore dell'articolo 14 del Dlgs n. 150 del 2011, al fine di stabilire il regime di impugnazione del provvedimento con cui si liquidano gli onorari e le altre spettanze dovuti dal cliente al proprio difensore per prestazioni giudiziali civili, assume rilevanza la forma adottata dal giudice in base alla qualificazione che egli abbia dato, implicitamente o esplicitamente, all'azione esercitata in giudizio". Dunque, "correttamente, e confidando sull'apparenza indotta dall'adozione della prima decisione in primo grado in forma di sentenza, la parte aveva proposto appello, avendo invece correttamente proposto oggi ricorso per cassazione, una volta che, all'esito della riassunzione la controversia sia stata correttamente trattata secondo le regole poste da l'art. 14 del Dlgs n. 150 del 2011".
Infine, nelle more del giudizio, ricorda la Cassazione, le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui (n. 4247/2020) in merito al procedimento per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti di avvocato, ove il professionista, chieda la condanna del cliente inadempiente al pagamento dei compensi per l'opera prestata in più fasi o gradi del giudizio, la competenza è dell'ufficio giudiziario di merito che ha deciso per ultimo la causa (e ciò difformemente da quanto opinato dal Tribunale nell'ordinanza impugnata, "ma trattasi di profilo che non risulta investito dai motivi di ricorso, e che quindi non si presta ad essere esaminato").