Bitcoin, l'offerta di monete digitali è sottoposta al Tuf
La valuta virtuale è strumento di investimento in quanto prodotto finanziario
Il Bitcoin, ma più in generale la valuta virtuale, deve essere considerato uno "strumento di investimento" perché consiste in un "prodotto finanziario" e deve dunque essere disciplinato dalle norme in materia di intermediazione finanziaria (articolo 94 e seguenti Tuf). Arriva la stretta della Corte di cassazione, sentenza n. 44378 depositata oggi, sull'offerta di monete digitali.
La Seconda sezione penale, accogliendo il ricorso del Pg di Brescia, ha infatti disposto un nuovo giudizio in merito al mancato sequestro preventivo di un wallet contenente 30 bitcoin relativamente ai reati, ipotizzati, di esercizio abusivo dell'attività finanziaria e autoriciclaggio.
Nel caso specifico all'imputato era stata contestata la raccolta di fondi che "aveva avuto come scopo la creazione di una piattaforma decentralizzata di servizi logistici", e il fatto che "a chi aveva contribuito erano stati corrisposti in cambio LWF Coin, che costituivano titoli per l'utilizzo dei servizi della piattaforma". Per la Suprema corte ricorrono tutti gli elementi distintivi dell'investimento finanziario ( per come già definiti dal Tribunale di Verona, decisione del 24 gennaio 2017), in quanto i soggetti interessati all'investimento per ottenerlo: "a) hanno erogato capitali (sotto la forma di bitcoin); b) con l'aspettativa di ottenere un rendimento, costituito dalla corresponsione di altre monete virtuali che avrebbero permesso la partecipazione alla piattaforma, dal valore variabile a seconda del momento dell'acquisto e che avrebbe acquistato maggior valore se il progetto relativo alla piattaforma avesse avuto successo; c) hanno assunto su di sé un rischio connesso al capitale investito".
La IV e la V Direttiva UE Antiriciclaggio, ricorda poi la decisione, sono state recepite dal nostro ordinamento con i Dlgs nn. 90/2017 e 125/2019 che prevedono specifici obblighi nei confronti dell'exchanger (cambiavalute di bitcoin et similia) e del wallet provider (gestori di portafogli virtuali), entrambi inseriti nella categoria "altri operatori non finanziari". Tuttavia, precisa la Corte, ove la vendita di bitcoin venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, si ha una attività soggetta agli adempimenti di cui agli articoli 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra il reato di cui all'articolo 166 comma 1 lettera c) TUF.
E, prosegue la decisione, solo le regole del Tuf "garantiscono attraverso una disciplina unitaria di diritto speciale la tutela dell'investimento". "Pertanto - afferma il Collegio -, chi eroga detti servizi è tenuto ad un innalzamento degli obblighi informativi verso il consumatore, al fine di consentire allo stesso di conoscere i contenuti dell'operazione economico-contrattuale e di maturare una scelta negoziale meditata". Secondo l'articolo 166, lettera c, del Tuf infatti "è punito con la reclusione da uno a otto anni e con la multa da euro quattromila a euro diecimila chiunque, senza esservi abilitato: … c) offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento". Come in ipotesi accaduto nel caso affrontato.
Dunque, conclude la Cassazione, la motivazione del Tribunale secondo cui non sussisterebbero indizi del reato è "contraddittoria con i fatti come riassunti nell'ordinanza", a nulla rilevando che i soggetti che hanno conferito il capitale "non abbiano presentato denunce; anzi, proprio il rischio assunto, di cui erano consapevoli, rafforza la conclusione che l'operazione posta in essere costituisse un vero e proprio investimento"