Professione e Mercato

Censurabile l’avvocato che usa espressioni offensive o sconvenienti nei confronti dei colleghi

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di Mario Finocchiaro

L'articolo 20 del codice deontologico degli avvocati fa obbligo all'avvocato, nella attività professionale in genere, ed a prescindere dalle conseguenze civili e penali, di non usare espressioni sconvenienti e offensive nei confronti, tra gli altri, dei propri colleghi. È censurabile disciplinarmente, pertanto, la condotta del professionista nella presentazione di esposto dal Consiglio dagli avvocati, ove la fraseologia adottata nei confronti di un collega sia di per sé sconveniente, a prescindere dalla veridicità dei fatti che hanno dato luogo alla presentazione dell'esposto stesso. Nella specie in un esposto al Consiglio dell'ordine il ricorrente aveva affermato che un suo collega patrocinando la simulata separazione, pur consapevole delle sue finalità, si è reso responsabile del reato di favoreggiamento personale, in una aggravante del reato già perpetrato dal suo assistito - appropriazione indebita - ai sensi dell'articolo 61, n. 2 , del Cp. Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza 11370/2016.

Un principio nuovo - Questione nuova, sulla quale non risultano precedenti in termini nella giurisprudenza della Suprema corte.
Sempre in margine all'articolo 20 del codice deontologico forense, in sede di merito si è affermato, tra l'altro:
• pone in essere un comportamento disciplinarmente rilevante, in violazione degli articolo 5 comma 1 e 20 del codice deontologico forense, il professionista che, durante l'udienza, privi la collega del dovuto titolo di avvocato, qualificandola semplicemente «signora», ed usi verso la stessa espressioni sconvenienti ed offensive, idonee ad incidere negativamente sulla dignità e sul prestigio dell'avvocato stesso e della classe forense, Consiglio nazionale forense, decisione 28 dicembre 2006 n. 195, in «Rassegna Forense», 2007, p. 1178;
• il professionista, nell'ambito della propria attività di difesa, può e, anzi, deve esporre con vigore e calore la tesi difensiva del proprio assistito, senza mai, tuttavia, far ricorso ad un linguaggio offensivo e, comunque, non consono alla correttezza ed al decoro professionale, che deve essere sempre il riferimento costante di chi esercita l'attività forense, Consiglio nazionale forense, decisione 5 ottobre 2006, n. 82, ivi, 2007,p. 726, resa in una fattispecie in cui le frasi usate dall'incolpato nei verbali di causa e nei suoi scritti difensivi rivestivano il carattere dell'ingiuria e dell'offesa, come tali dirette ad intaccare l'integrità morale del ctu, espressioni che il Consiglio ha ritenuto idonee ad integrare la violazione dell'articolo 20 del codice deontologico, poiché assolutamente non necessarie ai mezzi ed ai fini della difesa, pertanto comminando la sanzione dell'avvertimento;
• il professionista, nell'ambito della propria attività difensiva, pur potendo esporre con vigore e calore la tesi difensiva nell'interesse del proprio assistito, non deve mai fare ricorso ad un linguaggio atto ad offendere e, comunque, non consono alla correttezza ed al decoro formale e sostanziale che impone l'esercizio della professione forense, dovendo le esigenze della dialettica processuale e dell'adempimento del mandato professionale trovare un limite nella intangibilità della persona del contraddittore. Peraltro, il divieto di usare espressioni sconvenienti ed offensive ex articolo 20 del codice deontologico sussiste non soltanto nei confronti nel collega avversario, ma anche nei confronti delle controparti, Consiglio nazionale forense, decisione 5 ottobre 2006, n. 76, ivi, 2007, p. 711;
• il comportamento dell'avvocato che, nei confronti del collega, usi nei propri scritti espressioni sconvenienti ed offensive ha indubbia rilevanza deontologica, sotto il profilo della violazione dell'articolo 20 del codice deontologico forense, piuttosto che quella dell'articolo 22, come ritenuto in prime cure, ben potendo il Consiglio nazionale forense., quale giudice di merito, emendare la motivazione resa dal consiglio dell'ordine locale e dare diversa qualificazione alla violazione contestata, Consiglio nazionale forense, decisione 29 maggio 2006, n. 26, ivi, 2007, p. 718.

Un principio non condivisibile - Il principio enunciato nella specie dalla pronunzia ora in rassegna, comunque, non pare - a mio avviso - totalmente condivisibile.
Da un lato la norma deontologica invocata nulla precisa in merito alla veridicità o meno delle affermazioni fatte dal difensore, dall'altro, non credo possa esistere violazione del codice disciplinare ove sia assente l'animus iniurandi.
Nell'ottica che ispira la pronunzia in rassegna sono responsabili dell'illecito disciplinare in questione - infatti - tutte le difese svolte dagli avvocati difensori delle parti civili, vittime dei più efferati delitti, nei processi penali, nonché nei giudizi di separazione allorché in qualche modo affermano che il loro avversario ha violato i doveri che derivano dal matrimonio.
Se - del resto - si afferma che la denuncia di un reato perseguibile d'ufficio non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell'articolo 2043 Cc, anche in caso di proscioglimento o di assoluzione del denunciato, a meno che essa non integri gli estremi del delitto di calunnia, poiché, al di fuori di tale ipotesi, l'attività pubblicistica dell'organo titolare dell'azione penale si sovrappone all'iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale e interrompendo, così, ogni nesso tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato (così, da ultimo, Cassazione, sentenza 7 aprile 2016, n. 6790), pare eccessivo sostenere la responsabilità disciplinare del professionista che denunzi al Consiglio dell'ordine comportamenti a suo avviso scorretti e penalmente perseguibili.
Al riguardo, infine, non può non ricordarsi la pacifica giurisprudenza di legittimità costante nell'affermare che in materia di licenziamento per giusta causa, non costituisce illecito disciplinare, né fattispecie determinativa di danno ingiusto - grazie alla scriminante di cui all'articolo 598, primo comma, del Cp, avente valenza generale nell'ordinamento - attribuire al proprio datore di lavoro, in uno scritto difensivo, atti o fatti, pur non rispondenti al vero, concernenti in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia, ancorché tale scritto contenga, in ipotesi, espressioni sconvenienti od offensive, Cassazione, sentenze 11 dicembre 2014, n. 26106 e 26 gennaio 2007, n. 1757.

Corte di Cassazione - Sezioni unite - Sentenza 31 maggio 2016, n. 11370

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