Chiamata in correità: senza conferma diretta legittima altra dichiarazione a determinate condizioni
Sulla chiamata in correità la Cassazione, sentenza 18019 del 2018, chiarisce alcuni aspetti. La chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell'accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore, purché siano rispettate quelle condizioni che ne confortino adeguatamente la valenza probatoria e, dunque: che risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell'attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; che siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; che vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; che vi sia l'indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e che sussista l'autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse (cfr. Sezioni unite, 29 novembre 2012, Aquilina e altri).
Ai fini di una corretta valutazione di una chiamata in correità, costituisce affermazione costante quella secondo cui il giudice deve in primo luogo verificare la credibilità del dichiarante, valutando la sua personalità, le sue condizioni socio-economiche e familiari, il suo passato, i suoi rapporti con i chiamati in correità e le ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all'accusa dei coautori e complici; in secondo luogo, deve verificare l'attendibilità delle dichiarazioni rese, valutandone l'intrinseca consistenza e le caratteristiche, avendo riguardo, tra l'altro, alla loro spontaneità e autonomia, alla loro precisione, alla completezza della narrazione dei fatti, alla loro coerenza e costanza; deve, infine, verificare l'esistenza di riscontri esterni, onde trarne la necessaria conferma di attendibilità. Questi ultimi, poi, possono consistere in elementi di qualsivoglia natura anche di carattere logico; ciò, peraltro, a condizione che, oltre a essere individualizzanti, e quindi avere direttamente a oggetto la persona dell'incolpato in relazione allo specifico fatto a questi attribuito, debbono essere esterni alle dichiarazioni accusatorie, allo scopo di evitare che la verifica sia circolare e autoreferente (tra le tante, sezione III, 4 dicembre 2014, M. e altro).
Quanto, poi, al tema dei “riscontri estrinseci”, è parimenti specificato che questi, dal punto di vista oggettivo, possono consistere in qualsiasi circostanza, fattore o dato probatorio, non predeterminato nella specie e qualità, e avere, pertanto, qualsiasi natura: i riscontri, dunque, possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa che logica, e anche in un'altra chiamata in correità, a condizione che questa sia totalmente autonoma e avulsa rispetto a quella da “corroborare”.
È essenziale, inoltre, che tali riscontri siano “indipendenti” dalla chiamata, nel senso che devono provenire da fonti estranee alla chiamata stessa, in modo da evitare il cosiddetto fenomeno della “circolarità” della acquisizione probatoria, e cioè, in definitiva, che sia la stessa chiamata a convalidare sé stessa. I riscontri, infine, nell'ottica del giudizio di condanna, devono avere valenza “individualizzante”, devono, cioè, riguardare non soltanto il complesso delle dichiarazioni, ma anche la riferibilità dello specifico fatto-reato alla specifica posizione soggettiva dell'imputato; in altri termini, i riscontri non devono semplicemente consistere nell'oggettiva conferma del fatto riferito dal chiamante, ma devono costituire elementi che collegano il fatto stesso alla persona del chiamato, fornendo un preciso contributo dimostrativo dell'attribuzione a quest'ultimo del reato contestato.
Per converso, non è invece richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova “autosufficiente”, perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità (efficacemente, sezione II, 3 maggio 2005, Tringali e altri).
In questa prospettiva, è pacifico che gli elementi esterni di riscontro ben possono consistere anche in altre chiamate in correità “convergenti”, sempre che tale consonanza non sia il frutto di condizionamenti, collusioni e reciproche influenze. A tal riguardo, il requisito della “convergenza” non va, però, inteso come piena sovrapponibilità (che sarebbe, d'altro canto, sospetta), bensì come concordanza dei nuclei essenziali delle diverse chiamate in riferimento al fatto da provare (sezione V, 19 settembre 2006, Proc. gen. App. Palermo in proc. Inzerillo). Si valorizza, al riguardo, il carattere “autonomo” della (altra) chiamata in correità utilizzata a mò di riscontro, precisandosi peraltro che l'eventuale sussistenza di “smagliature” e “discrasie”, anche di un certo peso, rilevabili all'interno di dette dichiarazioni, non implica, di per sé, il venir meno della loro affidabilità, quando, sulla base di adeguata motivazione, risulti dimostrata la complessiva convergenza di esse nei nuclei fondamentali (sezione I, 11 maggio 2006, Ganci e altro).
Cassazione -Sezione I penale - Sentenza 23 aprile 2018 n. 18019