Clausola di gradimento: il lavoratore che rifiuta il trasferimento può essere licenziato
Non è un argomento nuovo quello del licenziamento (per giustificato motivo soggettivo oppure oggettivo) del lavoratore che si sottrae ad un ordine del datore di lavoro, ovvero il trasferimento presso altra unità produttiva della medesima azienda: in tale caso il recesso è pienamente legittimo in quanto non è giustificabile il rifiuto del dipendente.
Chiaramente, il presupposto fondante è che il trasferimento sia legittimo.
La disciplina del trasferimento, come noto, è lasciata all'articolo 2103 cod. civ. nel quale viene espressamente stabilito che lo stesso debba essere motivato da comprovate ragioni di tipo tecnico, organizzativo oppure produttivo; volendo effettuare una rapida analisi casistica, ad esempio:
i) le ragioni tecniche, sono essenzialmente quelle connesse alle capacità professionali del singolo dipendente e che rendono giustificabile il trasferimento in virtù delle necessità imprenditoriali di avere una figura peculiare all'interno di una determinata unità produttiva;
ii) le ragioni organizzative, invece, sono essenzialmente quelle connesse all'articolo 41 della Costituzione, ovvero alla facoltà dell'imprenditore di gestire (dunque, organizzare) l'attività secondo le proprie esigenze (chiudendo sedi, aprendo nuove filiali, ecc.) e conseguentemente spostando il personale richiesto;
ii) le ragioni produttive, infine, sono connesse ad esigenze (anche temporanee) della produzione e possono essere legate a periodi o stagioni dell'anno ben definiti.
ALTRI REQUISITI DEL TRASFERIMENTO
Quelli appena visti sono i requisiti prescritti per legge, attorno ai quali si è formata la giurisprudenza degli ultimi 40 anni e che si può considerare oramai granitica.
Negli anni, tuttavia, e a seguito dell'evoluzione del mercato del lavoro, anche il trasferimento è stato sottoposto a modifiche, poiché sempre più spesso le aziende si trovano a dover far fronte ad esigenze nuove, figlie anche della c.d. digital economy e di una sostanziale dematerializzazione del posto di lavoro; ecco, dunque, che altri requisiti sussidiari vengono imposti dalla giurisprudenza, che è intervenuta per ovviare ad alcune incomprensioni interpretative ed a superare i dubbi che si erano trascinati nel corso degli anni.
Sicuramente, il trasferimento deve risultare ragionevole al momento in cui viene disposto: questo significa che non può tramutarsi in un “capriccio” dell'imprenditore o in un provvedimento punitivo.
Il trasferimento, ad esempio, non può essere adottato come provvedimento disciplinare all'esito del relativo procedimento ex art. 7, l. 300/1970 in quanto le ragioni poste a suo fondamento devono sempre essere oggettive ed oggettivamente riscontrabili: a meno che il lavoratore non abbia concorso (con colpa o dolo) a giustificare la necessità del trasferimento
UN CASO LIMITE: LA CLAUSOLA DI GRADIMENTO
Da tempo si sta affacciando l'idea che il trasferimento possa essere realizzato anche in caso di motivazioni a carattere soggettivo, ovvero per questioni che riguardino personalmente il lavoratore e non necessariamente l'attività produttiva dell'azienda.
Nell'ambito degli appalti tra aziende private, può capitare di imbattersi in clausole che prevedano l'obbligo dell'appaltatore di “spostare” un proprio dipendente quando ritenuto non gradito da parte della committente; tale clausola di “gradimento” è chiaramente sottoponibile al vaglio del Giudice, ma in linea di massima è ritenuta legittima nel momento in cui faccia riferimento al più ampio concetto di idoneità alla mansione, considerata non solo come condizione fisica ma anche di vera e propria adeguatezza al ruolo.
La giurisprudenza di legittimità, in questa direzione, ha ritenuto che il trasferimento del dipendente dovuto ad incompatibilità aziendale – quale, per l'appunto, la situazione che viene a verificarsi a seguito di mancato gradimento espresso da parte della società committente – trova la sua legittimità nello stato di disorganizzazione e disfunzione in cui versa l'unità produttiva e, per questo motivo, viene ricondotto nell'alveo delle esigenze tecniche, organizzative e produttive prescritte ai sensi dell'art. 2103 cod. civ..
In questo senso, tra le tante Cass. 12.12.2002, n. 17786 (in Foro it., 2003, I, 440): “E' legittimo, ex art. 2103 c.c., il trasferimento del lavoratore disposto per incompatibilità aziendale, qualora tale incompatibilità determini disorganizzazione e disfunzione nell'unità produttiva, integranti un'obiettiva esigenza datoriale di modifica del luogo di lavor o”.
Per altro verso, in questi casi non si ravvisa neppure l'obbligo di dover preventivamente avviare un procedimento disciplinare in quanto il trasferimento di un dipendente rientra nel potere organizzativo del datore di lavoro che prescinde la violazione di una norma disciplinare. Sul punto cfr. Cass 6.7.2011, n. 14875 (in Foro it., 2011, I, 3007): “E' legittimo, anche se non preceduto da procedimento disciplinare, il trasferimento di sede volto a prevenire disfunzioni connesse alla permanenza del dipendente in quell'ambiente di lavoro, giacché esso non riveste natura disciplinare, ma si riconnette a ragioni, nella fattispecie obiettivamente riscontrate, correlate al regolare funzionamento dell'attività aziendale”.
Il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive – che legittimano il trasferimento – deve essere diretto ad accertare soltanto se vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell'impresa , trovando un preciso limite nel principio di libertà dell'iniziativa economica privata. Il controllo, infatti, non può essere esteso al merito della scelta imprenditoriale, né la stessa deve presentare i caratteri dell'inevitabilità poiché ciò che rileva è che la stessa sia ragionevole tra le varie scelte adottabili da parte del datore di lavoro.
Per altro, la Suprema Corte di Cassazione si è spinta oltre ed ha affermato con sentenza n. 10071 del 17 maggio u.s. che nel caso di mancato gradimento di un lavoratore espresso da parte del committente, il datore ha legittimo diritto di licenziarlo o trasferirlo “per incompabilità aziendale” seppur prima debba, ovviamente, provvedere ad assolvere al repechage. La sentenza, in sostanza, nel confermare l'obbligo di repechage per il datore, ribadisce altresì – in virtù dell'art. 41 della Costituzione – l'indiscutibilità delle scelte datoriali volte al miglior funzionamento dell'azienda, ed alla conservazione di quella redditività necessaria al funzionamento della stessa.
Si legge in motivazione infatti che “ la sentenza de qua [nd. ovvero la sentenza della Corte d'Appello oggetto di impugnazione] non dà adeguatamente conto del carattere ostativo rispetto al regolare funzionamento dell'azienda della disfunzione organizzativa ricollegata alla persona del ricorrente e dell'impossibilità di sovvenire ad essa attraverso la ricollocazione, anche valendosi di un provvedimento imperativo, del medesimo in seno all'organizzazione aziendale (repêchage), cui, del resto, era tenuta ex art. 3 Legge n. 604/1966”.
In buona sostanza, i Giudici di legittimità lasciano intendere non solo che è ben possibile un licenziamento per giustificato motivo oggettivo collegato all'incompatibilità ambientale, ma indicano anche quali siano le condizioni di legittimità che, come in tutti i licenziamenti, se presenti, reali ed effettive e poi adeguatamente allegate e provate dal datore di lavoro, consentono a quest'ultimo di poter licenziare un lavoratore per cause di incompatibilità ambientale: 1) sarà necessario provare che la condotta del lavoratore abbia minacciato e minacci il regolare funzionamento dell'azienda e 2) sarà necessario provare l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore per rimediare alla disfunzione organizzativa venutasi a creare.
IL RIFIUTO DEL LAVORATORE
In tutti i casi appena visti, pertanto, il lavoratore che si rifiuta di ottemperare alla direttiva dell'imprenditore è certamente licenziabile:
i) per giustificato motivo soggettivo, se la condotta è qualificabile come un inadempimento grave in grado di ledere il vincolo fiduciario;
ii) per giustificato motivo oggettivo, semplicemente se tale rifiuto ha reso la posizione di lavoro del dipendente un vero e proprio esubero.
Nel caso del licenziamento per motivo soggettivo, comunque, il lavoratore potrà agire per chiederne la nullità e/o l'illegittimità a fronte della illegittimità del trasferimento inizialmente disposto: l'esito non è affatto certo, poiché anche la dichiarata illegittimità del trasferimento non farebbe venire meno l'inadempimento, dunque il motivo fondante il licenziamento stesso.
Nell'altro caso, invece, quando il licenziamento viene motivato con la soppressione del posto di lavoro, sopperiscono le ordinarie regole del recesso individuale e l'obbligo di repechage si affaccia come oramai consueto.