Codice deontologico forense, l’equo compenso nel mirino dell’Antitrust
Secondo l’Autorità per la concorrenza manca il riferimento ai “grandi clienti” previsto dalla legge. Cnf: nessuna violazione, pronti al chiarimento. Del Noce (Uncc) l’Agcm rischia di snaturare la funzione costituzionale della professione forense
La norma del codice deontologico forense che recepisce la disciplina dell’equo compenso finisce nel mirino dell’Antitrust per una possibile intesa restrittiva della libera concorrenza. A dare l’allarme è l’Unione Nazionale delle Camere Civili che esprime “forte preoccupazione” per la delibera n. 31515 del 25 marzo 2025 dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. L’Agcm ha infatti avviato un’istruttoria nei confronti del Consiglio Nazionale Forense (CNF) per la presunta violazione dell’articolo 101 TFUE, a seguito dell’introduzione dell’articolo 25-bis nel Codice Deontologico Forense.
Sulla questione interviene direttamente il Consiglio Nazionale Forense. Il Cnf precisa: “La norma recepisce quanto previsto dalla Legge 49/2023”. “Si tratta, in modo chiaro ed inequivocabile - prosegue -, di un principio applicabile nei soli rapporti professionali disciplinati dalle ‘vigenti disposizioni in materia di equo compenso’, e dunque riconducibili alla legge n. 49/2023”. Il CNF, conclude la nota, confida di “chiarire all’Autorità Garante il contenuto dell’articolo del codice deontologico in questione in occasione di una audizione che sarà chiesta al più presto”.
L’Antitrust ricorda che l’articolo 25, comma 1, del Codice, relativo agli “Accordi sulla definizione del compenso”, stabilisce in via generale il principio che “La pattuizione dei compensi […] è libera”; e che l’articolo 25-bis aggiunto al Codice recita: “L’avvocato non può concordare o preventivare un compenso che, ai sensi e per gli effetti delle vigenti disposizioni in materia di equo compenso, non sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta e non sia determinato in applicazione dei parametri forensi vigenti” . Prevedendo che la violazione del divieto espone il professionista alla sanzione disciplinare della censura.
L’Authority sottolinea poi che la formulazione del Codice e le indicazioni del CNF “appaiono applicabili e vincolanti per tutti i professionisti iscritti all’albo degli avvocati operanti sull’intero territorio nazionale con riguardo ai servizi offerti anche a clienti non rientranti nella definizione di ’grandi clienti’ ai sensi dell’articolo 2 della Legge n. 49/2023”. “Di conseguenza, il mercato del prodotto è quello della fornitura di servizi di assistenza legale da parte degli avvocati nei rapporti con clienti diversi dai grandi clienti, e il mercato geografico ha dimensione quantomeno nazionale”.
Secondo l’Agcm dunque il mancato ancoraggio del comma 1 dell’articolo 25-bis del Codice “all’ambito soggettivo di applicazione della L. n. 49/2023”, fa sì che la disposizione deontologica - che vieta a qualsiasi professionista di chiedere compensi inferiori ai parametri forensi - sia suscettibile di essere applicata in ogni rapporto professionale, anche intercorrente tra l’avvocato e clienti diversi dai c.d. grandi clienti (individuati dall’articolo 2, comma 1, della L. n. 49/2023) e, quindi, anche a prescindere dalle effettive possibilità di negoziazione del compenso da parte del professionista e dalla verifica in concreto della circostanza che quest’ultimo possa essere o meno parte debole del rapporto.
Per i civilisti l’errore, in primis, è nella equiparazione dell’avvocatura a un’attività economica ordinaria. Un assunto che “ignora il ruolo pubblico e costituzionale della professione forense, sancito dalla Costituzione e dalla Legge professionale forense (L. 247/2012)”.
L’Agcm ribatte però che siccome gli avvocati prestano i propri servizi professionali a titolo oneroso, in forma indipendente assumendosene i rischi finanziari, possono essere qualificati “come imprese ai sensi dell’articolo 101 del TFUE, senza che la circostanza che l’esercizio della professione sia regolamentato possa far pervenire a conclusioni diverse”. Conseguentemente, il CNF può essere qualificato alla stregua di un’associazione di imprese ai sensi dell’articolo 101 del TFUE.
Una tesi bocciata dall’Uncc secondo cui l’introduzione dell’articolo 25-bis “è l’attuazione di un preciso vincolo legislativo previsto dalla L. 49/2023, e non frutto di una scelta regolatoria autonoma”. “L’obiettivo – prosegue la nota - è dare effettività all’equo compenso, strumento voluto dal legislatore per garantire la dignità della prestazione professionale”.
Secondo l’Uncc, dunque, le misure deontologiche previste “non introducono tariffe minime né limitano la libertà dei professionisti, ma garantiscono un livello minimo di equità e qualità nel rapporto tra avvocato e cliente”. E citano altre restrizioni alla concorrenza ammesse dal diritto europeo per esigenze superiori, come la qualità del servizio giuridico e il buon funzionamento del sistema giudiziario, aggiungendo che “le regole deontologiche perseguono proprio questi obiettivi”.
“Con questa delibera, - chiosa il presidente di UNCC, Alberto Del Noce - l’AGCM rischia di snaturare la funzione costituzionale della professione forense e di favorire le logiche dei poteri economici forti, indebolendo le tutele dei cittadini. L’UNCC ribadisce che la deontologia non è un ostacolo alla concorrenza, ma una garanzia per la giustizia e per i diritti fondamentali”.