Società

Continuità aziendale e rilevanza della pandemia da SARS-CoV-2 come sopravvenienza contrattuale non codificata

La pandemia da SARS-CoV-2 è equiparata a una sopravvenienza contrattuale non codificata, suscettibile di alterare l'equilibrio economico del contratto e legittimante la rinegoziazione del medesimo

di Rossana Mininno

Con il decreto-legge 24 agosto 2021, n. 118, recante "Misure urgenti in materia di crisi d'impresa e di risanamento aziendale, nonché ulteriori misure urgenti in materia di giustizia", convertito con modificazioni dalla legge 21 ottobre 2021, n. 147, il Governo - preso atto della gravità degli «effetti negativi che l'emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2 ha prodotto e sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale» e ravvisata la «straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure di supporto alle imprese per consentire loro di contenere e superare» detti effetti - ha introdotto nuovi strumenti di «soluzione concordata della crisi», orientati a incentivare il ricorso, da parte delle imprese, ad «alternative percorribili per la ristrutturazione o il risanamento aziendale».

Il primo degli strumenti neo-introdotti è la composizione negoziata per la soluzione della crisi d'impresa ( cfr. articolo 2 ), consistente in una procedura di carattere privatistico e natura stragiudiziale, attivabile - su base volontaria - dall'imprenditore (indifferentemente, commerciale o agricolo) che versi «in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l'insolvenza»: la procedura prevede l'affiancamento di un «esperto indipendente», al quale è affidato il compito di agevolare le trattative con i creditori al precipuo fine di «individuare una soluzione per il superamento» delle condizioni di squilibrio, «anche mediante il trasferimento dell'azienda o di rami di essa» (cfr. articolo 2, comma 2).

L'esperto «può invitare le parti a rideterminare, secondo buona fede, il contenuto dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per effetto della pandemia da SARS-CoV-2» ( articolo 10, comma 2, primo periodo ).

In caso di mancato raggiungimento dell'accordo al Tribunale è consentito, previa acquisizione del parere dell'esperto e tenuto conto delle ragioni dell'altro contraente, «rideterminare equamente le condizioni del contratto, per il periodo strettamente necessario» (articolo 10, comma 2, secondo periodo).

L'equa rideterminazione delle condizioni contrattuali si pone quale «misura indispensabile ad assicurare la continuità aziendale» (articolo 10, comma 2, secondo periodo).

La scelta normativa de qua si pone nel solco di quanto ritenuto dall'Ufficio del massimario e del ruolo della Suprema Corte di cassazione (in seguito "Ufficio del Massimario") con la relazione tematica n. 56/2020, adottata in sede di approfondimento delle "Novità normative sostanziali del diritto "emergenziale" anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale".

Con precipuo riferimento alla fase esecutiva dei contratti sinallagmatici l'Ufficio del Massimario si è soffermato sulle seguenti «problematiche interconnesse: quella della gestione delle sopravvenienze perturbative dell'equilibrio originario delle prestazioni contrattuali; quella dei correlati rimedi di natura legale e convenzionale».

Come osservato da detto Ufficio, le misure di contenimento imposte dal Governo per fronteggiare l'emergenza pandemica «hanno potuto sbilanciare, in via definitiva, l'economia del negozio, vuoi impegnando ultra vires una parte nell'esecuzione delle prestazioni che la gravano, vuoi impedendole di trarre dal rapporto le utilità in considerazione delle quali il contratto è stato concluso».

Il punctum dolens è stato circoscritto all'individuazione dei rimedi a disposizione delle parti di contratti resi squilibrati dalla pandemia, declinata in termini di ‘sopravvenienza', ricorrendo ai quali sia possibile ricostituire il rapporto di scambio consustanziale alle originarie pattuizioni intercorse e ricondurre le prestazioni all'originario equilibrio.

Ogni rapporto contrattuale è soggetto alle sopravvenienze ovvero è esposto al rischio del mutamento delle circostanze che incidono sugli interessi delle parti.

Con il termine ‘sopravvenienza' si intende una circostanza sopravvenuta alla conclusione del contratto che, pur non impedendone in toto l'esecuzione, assume rilievo nella fase funzionale e attuativa, incidendo sul programma contrattuale e alterando l'originario equilibrio delle prestazioni contrattuali, come fissato nella fase genetica del rapporto.

Dal punto di vista ontologico la sopravvenienza riguarda, segnatamente, i contratti a esecuzione continuata o periodica (c.d. contratti di durata), nonché i contratti a esecuzione differita: in tali tipologie contrattuali è fisiologicamente insito il rischio che con il trascorrere del tempo il contratto si riveli non più idoneo a soddisfare gli interessi di una o di entrambe le parti contraenti a cagione dell'intervenuto mutamento di una o più circostanze.

L'ordinamento attribuisce rilievo giuridico ai fatti sopravvenuti, dettando norme specificamente volte alla gestione di tali eventi.

Il rimedio legale ad hoc - apprestato dal legislatore del 1942 in deroga al principio di vincolatività del contratto (cfr. articolo 1372) - è rappresentato dalla risoluzione, nelle due varianti della risoluzione per sopravvenuta impossibilità, totale o parziale, della prestazione (cfr. articoli 1463 e 1464) nell'ipotesi in cui le sopravvenienze incidono sulla realizzabilità dell'operazione negoziale e della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (cfr. articolo 1467) nell'ipotesi in cui le sopravvenienze, pur non impedendo la realizzazione dell'assetto negoziale, ne alterano sensibilmente l'equilibrio: entrambi gli istituti hanno la finalità di porre rimedio all'intervenuta alterazione - rispettivamente, funzionale ed economica - del sinallagma.

La legge non esclude la possibilità del ricorso a rimedi convenzionali, che siano funzionali alla conservazione del contratto, tenendo conto delle nuove circostanze sopravvenute: le parti sono libere di adottare, già in sede di stesura del testo contrattuale, pattuizioni specificamente volte a disciplinare ex ante il verificarsi di eventuali sopravvenienze.

Il rimedio legale della risoluzione, tuttavia, non sempre si appalesa idoneo ad assicurare la migliore tutela delle parti: variabili quali il tipo di contratto, la sua portata economica e il relativo stato di esecuzione potrebbero, nel caso concreto, rendere il rimedio de quo inadeguato a soddisfare l'interesse concreto delle parti.

Si pensi, a titolo esemplificativo, al contratto di finanziamento: in caso di importo finanziato di rilevante entità lo scioglimento del contratto potrebbe avere conseguenze deleterie per il soggetto finanziato, il quale, una volta risolto il contratto, non solo perderebbe il credito, ma dovrebbe restituire, in un'unica soluzione, tutta la somma ricevuta.

In tali ipotesi la parte contraente onerata dalla sopravvenienza potrebbe - realisticamente - preferire il ricorso a uno strumento rimediale di tipo conservativo, che, nel contempo, consenta l'adeguamento del contratto.

Con precipuo riferimento ai contratti resi squilibrati dalla sopravvenienza pandemica da SARS-CoV-2 l'Ufficio del Massimario ha osservato che il rimedio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta è difficilmente praticabile in quanto - in linea di principio - invocabile «solo quando l'emergenza epidemiologica rende la prestazione dedotta in giudizio completamente e definitivamente ineseguibile o inottenibile», mentre le obbligazioni pecuniarie «tali non divengono mai, non essendo esposte ad una materiale o giuridica oggettiva impossibilità, ma solo ad una soggettiva inattuabilità, connessa all'indisponibilità o alla penuria dei flussi di cassa».

A ciò è stato aggiunto, quale ulteriore considerazione, che il concetto di impossibilità della prestazione non ricomprende la c.d. impotenza finanziaria, la quale, seppur incolpevole, è priva di «una vis liberatoria del debitore dall'obbligazione pecuniaria».

Anche il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta è stato ritenuto dall'Ufficio del Massimario inadeguato alla soluzione della problematica delle sopravvenienze poiché «riconosce la possibilità di richiedere la revisione del contratto divenuto iniquo solo alla parte che, in teoria, avrebbe meno interesse al riequilibrio, in quanto da esso avvantaggiata».

Nell'ottica ordinamentale - orientata in senso conservativo e non demolitorio - la «terapia» alla riduzione dei fatturati delle attività commerciali «non è la cesura del vincolo negoziale, ma la sospensione, postergazione, riduzione delle obbligazioni che vi sono annesse».

In quest'ottica, secondo l'iter logico-argomentativo seguito dall'Ufficio del Massimario, l'esigenza «manutentiva del contratto» è soddisfatta mediante la rinegoziazione del contratto (divenuto) squilibrato, rinegoziazione che - nell'ipotesi in cui i contraenti non abbiano, in sede di stipulazione del contratto, fissato pattiziamente le modalità di gestione delle sopravvenienze - è da intendersi come oggetto di un dovere specifico a carico delle parti avente la propria fonte legale negli articoli 1175 e 1375 del codice civile, «espressione del principio solidaristico che innerva il nostro sistema».

Le menzionate disposizioni codicistiche contengono il riferimento al concetto di buona fede, con riguardo, rispettivamente, all'attuazione del rapporto obbligatorio da parte del debitore e del creditore e alla fase dell'esecuzione.

La nozione di buona fede richiamata è di tipo oggettivo, da intendersi quale regola di condotta nell'esecuzione del contratto, declinata in termini di dovere di correttezza.

Quest'ultimo, a sua volta, si specifica nei due aspetti della lealtà e della salvaguardia e impone alla parte contraente di comportarsi lealmente e di porre in essere tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari al fine di salvaguardare l'interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. III, 4 maggio 2009, n. 10182 ).

Secondo l'Ufficio del Massimario, «la portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ex art. 1375 c.c. assume assoluta centralità, postulando la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute» e risultando, nell'attuale contesto emergenziale «dilaniato dalla pandemia», suscettibile di assolvere «la funzione di salvaguardare il rapporto economico sottostante al contratto nel rispetto della pianificazione convenzionale».

La rinegoziazione appare l'unica soluzione prospettabile - dal punto di vista rimediale - con riguardo sia alle prestazioni contrattuali «concretamente interdette dalle misure di contenimento» sia alle prestazioni contrattuali che «si inseriscono nell'ambito di scambi contrassegnati da stagnazioni e rallentamenti gestionali o da aumenti smisurati dei costi di produzione o approvvigionamento di materie e servizi».

L'obbligo di rinegoziazione non si pone, secondo l'Ufficio del Massimario, in (insanabile) conflitto con la libertà di autodeterminazione, «ma, al contrario, rispetta l'autonomia negoziale delle parti che un siffatto dovere non abbiano manifestamente escluso: l'obbligo infatti, assecondando l'esigenza cooperativa propria dei contratti di lungo periodo, consente la realizzazione e non la manipolazione della volontà delle parti».

Al fine dell'assolvimento del detto obbligo «la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l'invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell'economia del contratto».

Il rifiuto opposto dalla parte a rinegoziare «si risolve in un comportamento opportunistico che l'ordinamento non può tutelare e tollerare».

Per quanto attiene alla possibilità di un intervento giudiziale in chiave sostitutivo-correttiva, l'Ufficio del Massimario ha ipotizzato la praticabilità di una soluzione simile a quella delineata dall'articolo 2932 del codice civile: la parte onerata dalla sopravvenienza pandemica può, a fronte del rifiuto opposto dall'altro contraente alla rinegoziazione del contratto, «chiedere al giudice che lo costituisca con sua sentenza», la quale «tenga luogo dell'accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario».

In ogni caso, come precisato dall'Ufficio del Massimario, «la decisione del giudice non può avvenire sulla scorta di un metro casuale, soggettivo o arbitrario, dovendo calibrarsi su elementi rigorosamente espressi dal medesimo regolamento negoziale».

In estrema sintesi, con il decreto-legge n. 118 del 2021 il legislatore, consentendo la rideterminazione del contenuto dei contratti nell'ambito dei quali «la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per effetto della pandemia da SARS-CoV-2» (articolo 10, comma 2, primo periodo), ha preso atto della circostanza che - nell'ottica della continuità aziendale - lo scioglimento del rapporto negoziale non sempre costituisce la soluzione ‘ideale', potendo - verosimilmente - verificarsi che una delle parti ambisca alla conservazione del contratto, anziché alla sua caducazione.

Poiché la pandemia da SARS-CoV-2 si configura quale fattore straordinario sopravvenuto che supera la normale alea del contratto ed essendo - realisticamente - da escludere che le parti possano averne regolamentato gli effetti in via pattizia all'epoca della stipulazione del contratto, la rinegoziazione si appalesa come lo strumento rimediale idoneo a neutralizzare gli effetti negativi prodotti dalla pandemia sull'equilibrio economico contrattuale.

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