Giustizia

Coraggio: «Sopravvissuti grazie alla tecnologia. La Consulta non può tornare indietro»

Per il presidente della Corte costituzionale da valutare se l’udienza da remoto può restare in alcuni casi anche dopo la pandemia

Giancarlo Coraggio giura come giudice costituzionale a gennaio 2013 e guida la Corte da dicembre 2020

di Antonello Cherchi

La Corte costituzionale si sta trasformando: più incisività nelle decisioni, apertura alla società civile, anche nel processo, con gli “Amici curiae” e il coinvolgimento di esperti, è diventata più social e non disdegna le tecnologie. E se l’udienza da remoto è stata imposta dalla pandemia, il processo telematico, che partirà il 3 dicembre, è invece il compimento di un percorso iniziato anni fa. Un processo, come sottolinea il presidente Giancarlo Coraggio, da cui non si può tornare indietro.

Cosa vi aspettate dal processo telematico?

Innanzitutto è un fatto di civiltà: è ormai inconcepibile la quantità di carta che si utilizza. Uno spreco per l’ambiente. Poi ci sono ragioni di facilità di accesso da parte degli avvocati e anche della nostra cancelleria.

Favorevole, dunque, alle tecnologie nel processo?

Siamo sopravvissuti grazie a loro.

Rimarrà qualcosa dell’udienza a distanza?

Il processo a distanza è un ripiego. Il processo è orale e richiede uno stile, una forma: è un rito. Non posso però escludere che in alcune circostanze - per esempio, un avvocato infortunato e perciò impossibilitato a presenziare all’udienza - si possa anche in futuro ricorrere alla videoconferenza. È un tema su cui riflettere.

App, Twitter, Instagram, firma digitale, podcast: dal 2020 la Corte è più social. Una linea su cui continuare?

È un processo irreversibile. In quale misura debba svilupparsi, non so dire. È uno di quei fenomeni che vanno governati con cautela. Uno dei problemi della giustizia attuale è la spettacolarizzazione e la personalizzazione, rischio che la Corte non credo corra, ma questo ci impone la misura e l’attenzione nell’uso delle tecnologie.

L’emergenza, per la Corte, non è stata solo il processo da remoto. La Costituzione, che dovrebbe essere fattore di unità, è stata tirata in ballo più volte, finendo per apparire divisiva. Ha sentito come presidente della Corte un maggior peso su di sé?

Sì. Tutte le istituzioni si sono trovate investite di una maggiore responsabilità. Gli interessi in gioco sono rilevanti: stiamo parlando della salute e della libertà. Ma anche la stragrande maggioranza dei cittadini ha mostrato un alto grado di responsabilità. Non è, dunque, vero che la Costituzione abbia avuto un impatto divisivo.

La Costituzione, però, non viene lasciata in pace: ora è il turno del green pass rafforzato e dell’obbligo vaccinale. Il fenomeno ha qualcosa di patologico?

Sono in gioco valori rilevanti e non trovo anormale che ci si richiami alla Costituzione, seppure in alcuni casi in modo sbagliato. Lo trovo fisiologico in un momento di emergenza come questo. Nei momenti critici, i riferimenti devono essere i più alti possibile.

La Corte è stata più impegnata rispetto ai periodi di normalità?

Sì. Per questo abbiamo cercato di fare chiarezza, di non sfuggire ai problemi, come quello degli effetti di questa situazione eccezionale. La domanda è: fino a che punto si possono giustificare interventi a loro volta eccezionali? Abbiamo fissato criteri molto precisi: la situazione eccezionale giustifica interventi eccezionali, ma questi devono avere un preciso limite temporale e va costantemente verificata la proporzionalità tra l’emergenza e le misure prese.

Siete stati chiamati anche a ristabilire le competenze tra Stato e Regioni. Una convivenza difficile.

La definizione delle rispettive competenze non è facile. Prima di buttare la croce addosso al legislatore, pensiamoci. Non c’è, però, dubbio che la riforma del Titolo V della Costituzione abbia creato parecchi problemi, dando vita a un contenzioso imponente che ha qualcosa di patologico. Tuttavia, quest’anno, contrariamente a ogni aspettativa, c’è stata una diminuzione dei ricorsi. In generale, la conflittualità si sta riducendo, grazie anche ai principi enunciati dalla Corte.

Crescono i moniti della Consulta al legislatore. Molti inevasi. È di questi giorni il tema del suicidio assistito. Un ruolo di supplenza inevitabile?

Non è un problema solo italiano, ma riguarda più in generale i rapporti tra giudici, non solo costituzionali, e Parlamenti. Un ruolo di supplenza che alcuni qualificano come invadenza delle Corti, ma è un dato di fatto che nel mondo attuale ci sia una forte giurisdizionalizzazione della vita. Non è facile dire se sia un bene o un male. Ritengo ci si trovi di fronte a un duplice fenomeno: da una parte la moltiplicazione dei diritti, specialmente quelli delle minoranze, dall’altra l’urgenza con cui quei diritti vengono fatti valere. Il Parlamento non sempre riesce a stare dietro a questa situazione. Di qui l’intervento della Corte, che più che in passato, sente di non potersi astenere.

Il bilancio di fine mandato: quale Corte ha trovato e quale lascia?

Ho apprezzato l’importanza del dialogo, che rappresenta un elemento di continuità della Corte. Di fronte ad altri 14 giudici, sulle prime ero un po’ perplesso. Vedevo il rischio dell’assemblearismo, la difficoltà di raggiungere una conclusione. Ma non è così. Quindi, dialogo ad oltranza. Si è, invece, evoluta la giurisprudenza: quella sperimentata all’inizio non è quella che lascio. Oggi la Corte è molto più incisiva.

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