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Corporate Sustainability Due Diligence Directive: una nuova era per la sostenibilità nelle catene globali del valore

Dal 2027 la CSDDD impone un approccio più interventista ed extraterritoriale rispetto alla prudente regolamentazione italiana sull’outsourcing, segnando un cambio di paradigma nella responsabilità delle imprese lungo le filiere globali del valore

di Alessia Consiglio*

A partire dal 2027 le imprese saranno chiamate a conformarsi al “dovere di diligenza ai fini della sostenibilità” introdotto dalla Direttiva UE 2024/1760 (detta anche Corporate sustainability due diligence Directive). I noti obblighi di responsabilizzazione, prevenzione o, quantomeno, mitigazione degli impatti negativi sui diritti umani e l’intero ecosistema lungo tutta la filiera produttiva interesseranno le aziende di grandi dimensioni (in termini di numero di dipendenti e fatturato netto) quali parti dirette, e - ed è questo uno dei dati più di rilievo - tutti i partner che, dentro e fuori il territorio UE, con le supply chain avranno regolari scambi commerciali, quali parti indirette delle catene globali di valore.

L’impianto della Direttiva poggia sul superamento di due tradizionali tecniche regolative del diritto eurounitario: da un lato essa dilata il perimetro della supply chain oltre i tipici rapporti diretti infra-gruppo per includere anche tutte le relazioni commerciali che si formano all’interno delle catene globali, anche indirettamente; dall’altro prevede un’estensione extraterritoriale dei propri effetti ben oltre il territorio dell’UE imponendo che i relativi standard di tutela siano rispettati da tutti gli attori della catena, anche se localizzati e/o operanti al di fuori del territorio dell’UE.

Ad un occhio attento non sarà sfuggito, dunque, che è proprio l’approccio con cui il legislatore eurounitario guarda il mercato e alle sue parti ad essere drasticamente mutato.

La Direttiva UE 2024/1760 abdica alla storica astensione dell’UE dall’intervenire nel libero mercato in funzione, invece, dell’autoregolamentazione delle parti economiche. Sulla scia dei nuovi modelli promozionali inaugurati dal Green Deal europeo, l’UE sembra entrare invece in una fase di inedito approccio interventista.

Da un lato, infatti, con l’intento di responsabilizzare le imprese che operano nel mercato eurounitario, la Direttiva dettaglia regole fortemente incisive sulla libera iniziativa economica privata chiedendo l’effettiva implementazione di modelli imprenditoriali etico-sostenibili sinora rimasti abbastanza ai margini dell’iniziativa economica. Dall’altro, chiamando le società a rispondere dell’applicazione e del controllo dei nostri standard di tutela su realtà societarie che potrebbero essere a diversi continenti di distanza dall’UE, proietta la propria ambizione regolativa oltre i suoi confini, nel tentativo di affermare il modello europeo di sostenibilità come riferimento globale per la corporate governace.

Una traiettoria, questa, singolare non solo per i suoi risvolti micro-economici, ma anche per il suo percorso speculare a quello del legislatore italiano che ha fatto del suo storicamente faticoso riconoscimento delle attività di outsourcing una lunga trattativa tra le parti sociali. Trattativa confluita, dopo decenni di categorico divieto della mera somministrazione di manodopera, e come sforzo di integrazione nei mercati internazionali, in una recente (rispetto agli altri Paesi europei) regolamentazione della possibilità di ricorrere aforme di esternalizzazione controllata del lavoro, sempre entro limiti rigorosi e dettati dalla legge.

In altre parole, mentre il nostro ordinamento, memore dell’intensa lotta al caporalato, ha compiuto un prudente (e ancora sospettoso) percorso di apertura verso alcune forme regolate di esternalizzazione riconoscendo, ad alcune condizioni, attività di outsourcing della forza lavoro anche per permettere al tessuto industriale italiano di competere con il mercato internazionale, l’ordinamento eurounitario, che per lungo tempo ha sostanzialmente incentivato la libera organizzazione produttiva lungo le filiere globali del valore, ha iniziato negli ultimi anni a ritrarsi verso un approccio decisamente più prescrittivo e responsabilizzante. Quasi a voler ricordare la stessa logica fortemente protettiva da cui il nostro legislatore era originariamente partito.

Da questa prospettiva, nei prossimi anni il quid pluris dei consulenti potrebbe giocarsi sul perimetro da attribuire all’obbligo di due diligence e, in particolare, alla catena del valore potendo la filiera diversamente caratterizzarsi per rapporti societari o negoziali. L’attenzione ruoterà intorno proprio alla qualificazione del soggetto-partner commerciale: se la finalità della Direttiva è quella di contrastare i comportamenti opportunistici delle imprese diretti ad ignorare gli impatti negativi prodotti nelle parti più remote della catena del valore, è evidente che la mappatura del rischio dovrà prendere a riferimento ciò che accade all’interno di tutti i nodi dell’attività.

Certo, la Direttiva UE 2024/1760 offre anche un’opportunità: le realtà che riusciranno a dimostrare elevati standard di sostenibilità e responsabilità sociale potrebbero ottenere un vantaggio competitivo, diventando fornitori preferenziali per le grandi imprese che cercano di conformarsi alla direttiva. Inoltre, la crescente attenzione dei consumatori verso le pratiche aziendali etiche e sostenibili potrebbe tradursi in una maggiore fiducia e lealtà nei confronti delle società che adottano tali pratiche.

In questo scenario, la sfida non sarà solo di compliance normativa, ma anche di capacità sistemica: quella di costruire una cultura condivisa della sostenibilità lungo l’intera catena, promuovendo strumenti di accompagnamento, incentivi e meccanismi di responsabilizzazione ritagliati sulle effettive possibilità di ciascun attore economico coinvolto.

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*Alessia Consiglio, Associate Studio legale Nunziante Magrone

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