Covid-19 e rinegoziazione dei contratti di durata: obbligo o facoltà?
La posizione della giurisprudenza più recente individua nella rinegoziazione è un vero e proprio obbligo, quando l'equilibrio originario è andato perduto per cause sopravvenute fuori dal controllo delle parti, come la diffusione del Covid-19. La normativa emergenziale non ha introdotto però disposizioni generali al riguardo così come non ha previsto una generale esenzione dall'obbligo di adempiere agli impegni contrattualmente assunti nell'ambito dei rapporti di durata.
Da un anno a questa parte assistiamo a un acceso confronto tra proprietari, da un lato, e conduttori/affittuari, dall'altro: la pandemia ha infatti inciso significativamente sull'equilibrio economico dei contratti di durata stipulati prima del febbraio 2020 e non sempre si è scelta la strada della rinegoziazione, spesso ritenendo che si trattasse di una mera eventualità.
La posizione della giurisprudenza più recente è invece un'altra: la rinegoziazione è un vero e proprio obbligo, quando l'equilibrio originario è andato perduto per cause sopravvenute fuori dal controllo delle parti, come la diffusione del Covid-19. Il dubbio nasceva dal fatto che la normativa emergenziale non ha introdotto disposizioni generali al riguardo così come non ha previsto una generale esenzione dall'obbligo di adempiere agli impegni contrattualmente assunti nell'ambito dei rapporti di durata.
Inesistenza di una norma generale sulla riduzione dei canoni
Questa circostanza è stata considerata fondamentale in diverse pronunce dei giudici di merito in cui è stato evidenziato che "l'assenza, da un lato, di una norma generale che detti una disciplina per tutti i rapporti di durata e la presenza, dall'altro di una moltitudine di regole speciali […], impone di prendere atto che il legislatore ha inteso, in relazione a talune, pur numerose, fattispecie, assumere iniziative di agevolazione, ma nulla ha voluto disporre in ordine al quantum e al quando del pagamento dei canoni di locazione commerciale o di affitto d'azienda" per arrivare a concludere che "non è, dunque, possibile applicare in questa sede alcuna norma sospensiva dell'obbligo di pagamento dei canoni di affitto di azienda tratta dalla disciplina emergenziale ad oggi adottata, per la ragione – tanto semplice quanto decisiva – che una norma di tal fatta non esiste" (così Trib. Roma 25.7.2020 e Trib. Roma 29.5.2020).
Quanto alla portata dell'art. 3, comma 6 bis, del D.L. 6/2020, così come modificato dal successivo D.L. n. 18 del 17.3.2020 (c.d. Decreto Cura Italia) , spesso invocato dai conduttori per chiedere una misura cautelare che impedisse ai proprietari di escutere le fidejussioni rilasciate a garanzia dell'adempimento del contratto di locazione, si è rilevato che "consente unicamente di ritenere temporaneamente giustificati i mancati o i ritardati pagamenti relativi ai canoni maturati durante la vigenza di dette misure di contenimento, fermo restando l'obbligo di pagamento di detti canoni alla cessazione delle misure restrittive" (così Trib. Roma 9.9.2020), sempre che sia provata l'incidenza determinante di tali misure nel caso concreto.
I rimedi astrattamente esperibili
In assenza di una norma ad hoc, si deve far riferimento ai rimedi previsti in generale dal codice civile.
Il primo di tali rimedi è quello dell'impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 c.c. a cui la giurisprudenza sviluppatasi nell'attuale situazione pandemica ha attribuito una veste particolare.
I giudici romani , infatti, sono giunti a identificare l'istituto dell'impossibilità parziale – perché limitata alla porzione di immobile e/o di azienda colpita dalle misure restrittive (distinguendo, ad esempio, tra area ad uso magazzino e zona di vendita) - e temporanea – perché destinata a cessare al momento in cui le restrizioni saranno rimosse – della prestazione rispetto alla situazione vissuta tipicamente dalle parti di un contratto di locazione commerciale e/o di un affitto di azienda relativo a negozi per la vendita al dettaglio di prodotti non ritenuti essenziali dalla normativa emergenziale. Tali caratteristiche di parzialità e temporaneità dell'impossibilità escludono che si possa far ricorso tout court al rimedio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex 1463 c.c. ma imporrebbero di applicare una corrispondente riduzione della prestazione della parte che subito l'impossibilità parziale, fino a quando perdurerà la condizione di impossibilità temporanea, sempre che tale parte non preferisca recedere non avendo più un interesse apprezzabile all'adempimento parziale ex art. 1464 c.c.
Inoltre, resta fermo il principio per cui il denaro è da considerarsi un bene generico, fungibile e imperituro, e pertanto non può esservi un'impossibilità oggettiva ed assoluta di procurarselo, neppure in tempi di pandemia: la c.d. impotenza finanziaria, seppur incolpevole, non ha forza liberatoria del debitore dall'obbligazione pecuniaria.
L'altro rimedio che potrebbe richiamarsi in linea di principio è quello dell'eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c., previsto in tema di contratti a esecuzione continuata o periodica o differita.
Ferma la necessità di valutare caso per caso, è ragionevole pensare che la pandemia in corso e i suoi effetti sulle realtà economiche siano tali da rappresentare i caratteri di imprevedibilità, eccezionalità e generalità della causa sopravvenuta che renda eccessivamente onerosa la prestazione del conduttore in gran parte dei contratti di locazione o di affitto.
Il limite di questo rimedio è evidente: è volto a rimuovere il vincolo contrattuale e non a riequilibrare il sinallagma.
La rinegoziazione come strumento di conservazione dei contratti
La demolizione del contratto in essere potrebbe non essere il risultato sperato dalle parti, che ben potrebbero preferire di mantenerlo in vita ma a condizioni congrue rispetto al mutato scenario socioeconomico in cui si trovano ad operare in seguito alla diffusione del Covid-19.
Solo la rinegoziazione potrebbe portare a una soluzione "win-win" per entrambi i contraenti: rimodulando quantum e quando dell'obbligo di pagamento, il conduttore non sarebbe privato della possibilità di continuare a godere dell'immobile/azienda e il proprietario non sarebbe costretto a rimettere sul mercato l'immobile/azienda con il rischio di doverlo tenere sfitto per un periodo di tempo più o meno lungo e/o di dover applicare canoni ridotti in considerazione della crisi in corso.
L'obiettivo dovrebbe essere quello di riportare il sinallagma contrattuale in una posizione di equilibrio dopo che quest'ultimo è andato perso a causa delle mutate circostanze di fatto, senza timore che questa operazione di "ortopedia" infranga l'autonomia negoziale delle parti né il principio generale "pacta sunt servanda".
In questo processo assume rilievo fondamentale il dovere di eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza ex art. 1375 c.c., emanazione del principio solidaristico dell'art. 2 della Costituzione, che rappresenta un limite interno ad ogni situazione giuridica soggettiva contrattualmente stabilita, per cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio del proprio.
Secondo questa prospettiva, costituzionalmente orientata, la correttezza impone alle parti di prendere atto degli effetti prodotti dalle mutate circostanze e di adottare misure correttive idonee a salvaguardare il rapporto economico sottostante, nel rispetto di quanto inizialmente prefigurato, mutatis mutandis.
In tal senso la rinegoziazione, ben lungi dal contraddire l'autonomia privata, consente di dare ingresso e riassorbire nel rapporto contrattuale, dinamicamente inteso, le sopravvenienze in fatto e in diritto incidenti sull'equilibrio economico voluto dalle parti.
Questi principi sono stati ben illustrati nella relazione n. 56 dell'8 luglio 2020 della Corte di Cassazione, dedicata proprio alla normativa emergenziale e all'impatto delle sopravvenienze determinate dalla pandemia in ambito contrattuale, a riprova della complessità e rilevanza di questi temi.
La Corte di Cassazione ha quindi fornito una specifica chiave interpretativa dei tradizionali istituti giuridici nell'attuale situazione emergenziale, in contrapposizione alle pronunce in senso contrario che si erano lette nei mesi precedenti la pubblicazione della relazione. In esse,, rispetto all'obbligo di collaborazione derivante dal principio di buona fede oggettiva, si riteneva "assai arduo ed in definitiva impercorribile […] il tentativo di dilatarne l'ambito applicativo sino a toccare in modo sensibile le obbligazioni principali del contratto, a partire dai tempi e dalla misura di corresponsione del canone; si tratterebbe, del resto, di esito interpretativo che rischierebbe di minare la possibilità, per le parti, di confidare nella necessaria stabilità degli effetti del negozio (quanto meno, i principali) nei termini in cui l'autonomia contrattuali li ha determinati" (così Trib. Roma 29 maggio 2020).
Successivamente alla pubblicazione della relazione, i principi ivi enunciati hanno iniziato a trovare concreta applicazione nelle corti di merito. Ne è un limpido esempio l'ordinanza del Tribunale di Milano del 21.10.2020, in cui si stabilisce chiaramente che: "A causa dell'emergenza sanitaria in corso, è da ritenersi necessaria, alla luce del principio di buona fede e correttezza nonché dei doveri di solidarietà costituzionalizzati (art. 2 Cost.), una rinegoziazione del canone di locazione al fine di riequilibrare il sinallagma, così come caldeggiato anche dalla Suprema Corte nella relazione tematica n. 56 dell'8 luglio 2020" e che "una rinegoziazione dell'importo del canone – nel senso di una sua temporanea riduzione – e/o delle modalità di corresponsione del canone stesso, verrebbe dunque a riequilibrare lo scambio, richiedendo al locatore un sacrificio ampiamente inferiore a quello cui il conduttore sarebbe soggetto ove fosse tenuto a corrispondere l'intero canone, a fronte di un'utilità significativamente ridotta, seppur temporaneamente, esercitando parte conduttrice nell'immobile locato un'attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevand e". Il Giudice milanese, quindi, ha negato la convalida dello sfratto e ha invitato parte locatrice a formulare una proposta di rinegoziazione del canone per il periodo marzo-dicembre 2020 e parte conduttrice a prendere posizione al riguardo entro il termine indicato.
Secondo una diversa impostazione, di fronte alle sopravvenienze eccezionali non regolate dalla legge o dal contratto che generino un evidente squilibrio delle prestazioni, l'intervento del giudice va ammesso non in ragione del mancato adempimento delle parti dell'obbligo di rinegoziare in buona fede il contenuto del contratto, ma in ragione dei poteri equitativi concessi al giudice dall'art. 1374 c.c. (così, ad esempio, Trib. Roma 27.8.2020).
La pandemia ha così acceso i riflettori su un tema spesso affrontato nei contratti del commercio internazionale attraverso le clausole c.d. di "hardship" . Si tratta di clausole che trovano applicazione quando una prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per circostanze sopravvenute e non previste/prevedibili dalle parti e tali da incidere sull'equilibrio contrattuale.
Il contenuto di tali clausole si articola sostanzialmente in due parti: nella prima si definiscono le caratteristiche che le circostanze sopravvenute devono avere per configurare l'eccessiva onerosità della prestazione, considerato il fatto che tale concetto è declinato in modo anche significativamente diverso dai vari ordinamenti nazionali, e, nella seconda, si disciplinano i rimedi esperibili. E' emblematico che il primo rimedio solitamente consista nella rinegoziazione in buona fede tra le parti e, solo nel caso in cui questa fallisca, si accede agli eventuali ulteriori rimedi che consistono o nell'intervento di un terzo arbitratore o di un giudice per ristabilire il sinallagma o nella facoltà di risolvere il contratto.
E', quindi, ragionevole attendersi una maggiore diffusione di tali clausole anche in ambito domestico oltre che una più attenta ed articolata formulazione delle stesse nei contratti del commercio internazionale.
Conseguenze della mancata rinegoziazione
E' bene precisare che l'obbligo di rinegoziazione impone di intavolare trattative e di condurle correttamente, sulla base di soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e ragionevoli alla luce dell'economia del contratto, ma non si estende sino a ricomprendere l'obbligo di concludere effettivamente il contratto modificativo.
In presenza di un obbligo di rinegoziazione, il mancato adempimento di tale obbligo comporta il risarcimento del relativo danno e non si esclude che possa condurre anche all'esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., con il conseguente potere del giudice di pronunciare una sentenza che tenga luogo dell'accordo di rinegoziazione non concluso, purché sia possibile nel caso di specie predeterminare secondo elementi rigorosamente espressi l'esito preciso a cui le trattative erano finalizzate.
La previsione di un'apposita clausola di "hardship" assume rilievo anche rispetto a questo ulteriore profilo, ben potendo offrire parametri precisi a cui ancorare le valutazione del giudice nell'ambito di un eventuale giudizio volto ad ottenere l'esecuzione in forma specifica.
Infine, si ricorda che proprio per venire incontro all'esigenza di trovare una rapida soluzione alle controversie, dal 1° luglio 2020 la Camera Arbitrale presso la Camera di Commercio di Milano ha istituito la procedura di Arbitrato Semplificato, in cui la decisione è affidata a un arbitro unico, i tempi per il deposito del lodo sono dimezzati (tre mesi anziché i sei ordinari) e i costi sono ridotti (in media del 30%) rispetto all'arbitrato ordinario.
Gli strumenti per evitare che le controversie sulla rimodulazione dei contratti sfocino in cause avanti al Tribunale, dunque, non mancano.
____
*A cura dell'avv. Chiara Mantelli, Lègister Avvocati