Professione e Mercato

Criptovalute, inquadramento giuridico e tributario

La nozione tuttavia non è definitiva e applicabile a tutti i settori dell'ordinamento. Con il presente articolo si cercherà di riunire le diverse definizioni di criptovaluta, tentando inoltre di delinearne l'attuale trattamento fiscale.

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di Giuseppe Magaudda*


Le criptovalute, allo stato attuale, possono giuridicamente qualificarsi come rappresentazioni digitali di valore, non emesse né garantite da una banca centrale o da un'autorità pubblica, utilizzate come mezzo di scambio alternativo alle monete aventi corso legale o detenute per finalità di investimento.

La nozione tuttavia non è definitiva e applicabile a tutti i settori dell'ordinamento.

Con il presente articolo si cercherà di riunire le diverse definizioni di criptovaluta, tentando inoltre di delinearne l'attuale trattamento fiscale.

Anzitutto si noti che la formulazione originaria di matrice giurisprudenziale, che con-siderava le criptovalute come mezzo di pagamento, elaborata dalla Corte di Giusti-zia UE con la nota sentenza del 22.10.2015, causa C-264/14 "Skatteverket v. David Hedqvist", è ormai superata.

Le criptovalute, ad oggi, sono, infatti, un mezzo di scambio convenuto tra le parti che le utilizzano come tale pur non essendo legalmente vincolate ad accettarle.

In tal modo le ha sostanzialmente qualificate il legislatore europeo all'art. 1, par. 2, lett. d), Dir. 2018/843/UE (c.d. "V Direttiva antiriciclaggio"), escludendone, al contempo, "lo status giuridico di valuta o moneta".

La formulazione è stata in parte recepita nel D.Lgs. 231/2007 (c.d. "antiriciclaggio", modificato, prima, dal D.Lgs. 90/2017 e, poi, dal D.Lgs. 125/2019, quest'ultimo attuativo, per l'appunto, della citata Dir. 2018/843/UE), all'art. 1, comma 2, lett. qq), che testualmente definisce la criptovaluta come "rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un'autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente".

Al di fuori dello scenario del contrasto al riciclaggio, questa nozione è apparsa tuttavia insufficiente, ragion per cui gli operatori giuridici l'hanno spesso disattesa in favore di altre definizioni più idonee alla soluzione del caso concreto di volta in volta sottoposto alla loro attenzione.

Celebre, ad esempio, la sentenza n. 195 del 21.01.2017 del Tribunale di Verona, che, dovendo decidere sulla qualificazione giuridica di un contratto di compravendita di valute virtuali, le ha connotate "alla stregua degli strumenti finanziari […], il che obbliga colui il quale ne pubblicizzi la vendita […] ad informare preliminarmente l'utente interessato all'acquisto sui rischi connessi all'investimento (c.d. informativa precontrattuale), così come stabilito dagli artt. 67 e ss. del codice del consumo in tema di commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori".

Eppure le criptovalute non sembrano esplicitamente considerate o riconducibili alla categoria degli strumenti finanziari, anche qualora le si voglia tuttora intendere come mezzo di pagamento, e ciò in quanto, per un verso, non sono indicate tra gli strumenti finanziari elencati nell'Allegato I, Sezione C, D.Lgs. 58/1998 (c.d. "TUF"), e per l'altro, ai sensi dell'art. 1, comma 2, dello stesso Decreto, "Gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari".

Più di recente, la Corte di Cassazione Penale, con sentenza n. 26807 del 17.09.2020, giudicando infondata la tesi secondo cui le criprotovalute, essendo mezzi di pagamento, sarebbero sottratte alla normativa in materia di strumenti finanziari, le ha equiparate ai "prodotti finanziari laddove la vendita delle stesse sia reclamizzata come una proposta di investimento e, in tal caso, trattandosi di attività soggetta agli adempimenti di cui al Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (Tuf), l'omissione integra il reato di abusivismo finanziario di cui all'articolo 166, comma 1, lettera c), del Tuf".

Sebbene questa impostazione appaia più plausibile, poiché prodotti finanziari, ai sensi dall'art. 1, comma 1, lett. u), D.Lgs. 58/1998, sono, non solo gli strumenti finanziari, ma anche "ogni altra forma di investimento di natura finanziaria", va segnalato che essa comporta la conseguente applicazione della normativa prevista in materia di sollecitazione del pubblico risparmio, di cui agli artt. 94 e ss. D.Lgs. 58/1998, e delle regole, ex art. 34, dello stesso Decreto, riguardanti la promozione e il collocamento a distanza di prodotti finanziari, allo stato poco plausibile visto che le criptovalute non sono soggette alle norme in materia di trasparenza dei prodotti bancari e dei servizi di investimento e continuano ad essere sprovviste di specifiche forme di tutela, non essendo sottoposte a nessuna forma di supervisione o di controllo da parte delle autorità di vigilanza.

Altra è, invece, la nozione proposta con decreto n. 26 del 30.10.2018 dalla Corte di Appello di Brescia, che ha assimilato le criptovalute "sul piano funzionale, al denaro", negandone, tuttavia, l'idoneità ad essere conferite nel capitale sociale di S.r.l., dacché "Non è […] possibile assegnar[e ad esse] — in assenza di un sistema di scambio idoneo a determinarne l'effettivo valore ad una certa data — un controvalore certo in euro, essendo a tal fine precluso […] il ricorso alla mediazione della perizia di stima"; di contro, il Tribunale di Brescia, con decreto n. 7556 del 18.07.2018, ha valutato le criptovalute come beni in natura, comunque non conferibili in S.r.l. perché non suscettibili di valutazione economica ex art. 2464, comma 2, c.c.

Quest'ultima tesi è più coerente con l'art. 1, par. 2, lett. d), Dir. 2018/843/UE, che, come detto, ha derubricato le criptovalute dello "status giuridico di valuta o moneta", assimilandole più a dei veri e propri assets; come del resto ritenuto dalla Banca d'Italia, a pag. 8 del Rapporto sulla stabilità finanziaria 2018, che le ha definite "criptoattività (cryptoassets) […] comunemente chiamate "valute virtuali", anche se non svolgono le funzioni economiche della moneta"; e, infine, ribadito, dal TAR Lazio con la sentenza n. 1077 del 27.01.2020 con cui le ha giudicate ""beni" immateriali, giacché non svolgono le funzioni tipiche della moneta, per via della loro estrema volatilità, da un lato, e della mancanza di potere liberatorio nei pagamenti, dall'altro".

È dunque evidente che, malgrado permangono ancora parecchie incertezze, gli interpreti sono riusciti comunque a fornire un primo contenuto al significato di criptovaluta, escludendone lo qualifica di valuta o moneta.

Ciò nonostante, rimane impellente l'esigenza di una regolamentazione che disciplini in maniera generale e astratta le criptovalute, la quale però si presta di difficile attuazione.

Le criptovalute, infatti, sono state concepite per diversi scopi, sicché è più pensabile una regolamentazione delle singole situazioni giuridiche che le riguardano, piuttosto che una legislazione univoca e adattabile ad ogni fattispecie.

In proposito, urgente si mostra l'esigenza di un intervento legislativo nel settore tributario dell'ordinamento giuridico, ove, non solo non si rinviene alcuna norma che regolamenti il trattamento fiscale applicabile alla circolazione delle criptovalute, sia ai fini dell'imposizione diretta che indiretta, ma addirittura l'Amministrazione Finanziaria si ostina ad associarle alle valute estere, nonostante, come suesposto, innumerevoli fonti escludano questa possibile assimilazione.

Sul punto ancora una volta va menzionata la sentenza del 22.10.2015 della Corte di Giustizia UE in cui emerge l'intenzione della giurisprudenza unionale di comunque distinguere le "valute tradizionali, in quanto si tratti di monete che costituiscono mezzi di pagamento legali", dalle criptovalute, che invece tale funzione non posseggono.

Con questa pronuncia si è affermato che "Le operazioni che consistono nel cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale "bitcoin" e viceversa, effettuate a fronte del pagamento di un "margine" costituito dalla differenza tra il prezzo di acquisto e quello di vendita, costituiscono prestazioni di servizi a titolo oneroso esenti da IVA in quanto riconducibili al dettato dell'art. 135, par. 1, lett. e), Direttiva IVA", ovvero alle operazioni, compresa la negoziazione, relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio. Ciò in quanto "le diverse versioni linguistiche dell'articolo 135, paragrafo 1, lettera e), della direttiva IVA non consentono di determinare senza ambiguità se tale disposizione si applichi alle sole operazioni vertenti sulle valute tradizionali o se essa riguardi invece anche le operazioni relative ad altre valute".

La Corte di Giustizia UE si è così pronunciata su di una domanda pregiudiziale di interpretazione degli artt. 2, par. 1, e 135, par. 1, Dir. 2006/112/CE, proposta in una controversia tra il fisco svedese e un privato cittadino, relativa al parere preliminare reso dal giudice tributario di quello stato in merito all'assoggettamento ad IVA delle operazioni di cambio della criptovaluta "Bitcoin" in una valuta tradizionale o viceversa da effettuare con la mediazione di una società.

I principi formulati dalla Corte di Giustizia UE a livello nazionale sono stati solo parzialmente recepiti con risoluzione n. 72/E del 02.09.2016 dall'Agenzia delle Entrate, la quale ha ritenuto che "l'attività […] remunerata attraverso commissioni pari alla differenza tra l'importo corrisposto dal cliente che intende acquistare/vendere bitcoin e la migliore quotazione reperita […] sul mercato, debba essere considerata ai fini Iva quale prestazione di servizi esenti ai sensi dell'articolo 10, primo comma, n. 3), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633".

In altre parole, l'Amministrazione Finanziaria ha valutato ai fini IVA la predetta atti-vità alla stessa stregua di quanto fatto dalla Corte Giustizia UE e ha ritenuto le sottese operazioni esenti, ex art. 10, comma 1, n. 3, D.P.R. 633/1972, parificandole però a quelle "relative a valute estere aventi corso legale", il che equivale ad assimilare le criptovalute alle valute estere.

Osservando questa tesi, l'Agenzia delle Entrate ha poi introdotto il trattamento tributario ai fini delle imposte dirette da applicare ai proventi o alle perdite derivanti dalle operazioni eseguite tramite criptovalute, specificando che i redditi derivanti dall'esercizio dell'attività di intermediazione nell'acquisto e vendita di criptovalute sono assoggettabili ad IRES e IRAP; mentre, "Per quanto riguarda, la tassazione ai fini delle imposte sul reddito dei clienti […] si ricorda che le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa […] pertanto, non [si] è tenut[i] ad alcun adempimento come sostituto d'imposta".

L'assunto è stato poi ripreso nell'interpello n. 956-39/2018, con cui l'Agenzia delle Entrate ha chiarito che ai fini IRPEF "alle operazioni di conversione di valuta virtuale si applicano i principi generali che regolano le operazioni aventi ad oggetto valute tradizionali", conseguentemente, le criptovalute possono produrre redditi diversi ai sensi dell'art. 67, comma 1, lett. c-ter), D.P.R. 917/1986 (c.d. "TUIR"). Precisamente, possono esser tassate le plusvalenze realizzate dalla cessione a termine e a titolo oneroso di criptovalute, intendendosi per cessione a titolo oneroso anche il prelievo, se rivenienti da depositi e conti correnti (c.d. "wallet") la cui giacenza superi un controvalore di € 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d'imposta, poiché, sopra questa soglia, la finalità speculativa si presume.

L'Amministrazione Finanziaria ha pure chiarito che i proventi derivanti dalle operazioni realizzate sul mercato valutario e da CFD aventi ad oggetto criptovalute costi-tuiscono redditi diversi ai sensi dell'art. 67, comma 1, lett. c-quater), D.P.R. 917/1986.

Questi redditi, in quanto percepiti da una persona fisica al di fuori dell'esercizio di attività d'impresa, sono soggetti ad imposta sostitutiva ex art. 5 D.Lgs. 461/1997.

Avendo assimilato le criptovalute alle valute estere e i wallets ai conti correnti, l'Agenzia delle Entrate ha infine precisato che la loro detenzione va monitorata attraverso il quadro RW della dichiarazione, ai sensi dell'art. 4, D.L. 167/1990, e che esse non sono assoggettate ad IVAFE, in quanto tale imposta si applica ai soli depositi e conti correnti bancari. Va però osservato che i wallets non necessariamente si collocano all'estero (come quando vengono aperti su di una piattaforma c.d. "ex-change", che permette il cambio di valuta tradizionale con criptovalute e viceversa, gestita da una società estera che detiene le chiavi private), ben potendo non essere collegati alla rete internet e il contribuente avere il pieno possesso della chiave privata.

Al di là dei predetti dubbi, il problema principale risiede nel fatto che tutt'oggi l'Agenzia delle Entrate ritiene le criptovalute assimilabili alle valute estere, non badando alla legislazione europea (art. 1, par. 2, lett. d), Dir. 2018/843/UE), che non attribuisce ad esse lo "status giuridico di valuta o moneta"; né a quella nazionale (art. 1, comma 2, lett. qq), D.Lgs. 231/2007), che ne consente l'uso solo come "mezzo di scambio" e "per finalità di investimento". Invero già un anno prima del citato interpello n. 956-39/2018, il legislatore all'art. 1, comma 2, lett. qq), D.Lgs. 90/2017 (che ha modificato il D.Lgs. 231/2007), aveva ritenuto la criptovaluta "come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente".

A prescindere da tutto, la tesi del Fisco italiano è stata confermata dal TAR Lazio, con la già citata sentenza n. 1077 del 27.01.2020, il quale, sebbene abbia precisato che
"non possono essere dedotte in sede di giurisdizione generale di legittimità censure attinenti i concreti presupposti e limiti della tassazione dell'utilizzo delle criptovalute ex art. 67 TUIR e della indicazione della moneta elettronica nel quadro RW del Modello Unico 2019, in quanto tali doglianze attengono all'attuazione del rapporto di imposta e vanno dedotte nel relativo ambito", ha affermato che le criptovalute vanno indicate nel quadro RW tra i redditi finanziari di provenienza estera.

Ad ogni modo, la tesi dell'Agenzia delle Entrate ugualmente non convince, sia per le ragioni già ampiamente esposte, sia perché non tiene conto che le valute estere hanno sempre un collegamento con uno o più Stati esteri che le emettono o comunque le riconoscono legalmente come mezzo di scambio. Ecco quindi che l'esigenza di un intervento legislativo, che disciplini fiscalmente i fenomeni connessi all'uso delle criptovalute, limitando così gli spazi di azione dell'Amministrazione Finanziaria, è probabilmente più sentito rispetto ad altri ambiti del diritto, nei quali, nondimeno, il legislatore dovrà, più prima che poi, intervenire in maniera poderosa.

* a cura dell'avv. Magaudda di Partner 24ORE

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