Lavoro

Dalla diffamazione al procedimento disciplinare, le conseguenze dell’uso inappropriato dei social sul lavoro

Breve rassegna di giurisprudenza

Pieces of puzzle with media terms on it

di Pasquale Zumbo*

A seguito dell’incremento nella diffusione dei Social Network si registra un dato: la crescita esponenziale del contenzioso nell’ambito del rapporto avente ad oggetto l’utilizzo, distorto, di tali strumenti.

Diventano infatti tutt’altro che infrequenti i casi in cui l’utilizzo inappropriato dei Social Network finisce per essere il mezzo con cui si consumano delle vere e proprie diffamazioni all’interno del contesto lavorativo che vengono puntualmente sanzionate disciplinarmente. Del pari, non mancano i casi in cui l’Azienda scopre, per il tramite degli stessi Social, condotte illegittime, come, ad esempio, assenze ingiustificate dal lavoro o utilizzo compulsivo dei Social durante l’orario di lavoro, e anche in questo caso si aprono le porte del procedimento disciplinare, le cui conseguenze possono essere anche quelle della perdita del posto di lavoro.

Le decisioni dei Giudici vanno alla ricerca dell’equilibrio, non sempre raggiunto, tra interessi contrapposti, ossia: da un lato, il diritto alla libera espressione del pensiero – che i Social network si prefigurano idealmente - la tutela della privacy, della riservatezza dei lavoratori anche nella propria vita extra-lavorativa e dall’altro, la tutela dell’immagine e del patrimonio aziendale.

È utile esaminare alcuni di questi precedenti per comprendere la portata e le caratteristiche del fenomeno e anche e soprattutto per sviluppare un uso maggiormente consapevole degli strumenti ed evitare ricadute sul rapporto di lavoro.

Un caso eclatante di utilizzo inappropriato dei Social è quello giudicato dal Tribunale di Ivrea, con ordinanza del 28 gennaio 2015, che ha esaminato l’impugnazione di un licenziamento di un dipendente il quale, all’indomani della pubblicazione di un provvedimento giudiziale che disponeva la di lui reintegra in servizio, era stato licenziato (per la seconda volta) in quanto, nel commentare il provvedimento giudiziale, aveva pubblicamente postato su Facebook frasi gratuitamente diffamatorie contro l’azienda ed offensive contro le colleghe.

È facile intuire come il giudizio sia andato a finire: il Tribunale ha confermato la legittimità del licenziamento stigmatizzando la gravità delle offese.

La Cassazione Sezione Lavoro, con la recente sentenza del 6 dicembre 2023, n. 34107 , si è pronunciata su un licenziamento di un dipendente di un Ente Pubblico che, durante l’orario di lavoro, aveva malamente parcheggiato l’auto aziendale per effettuare degli acquisti presso un mercato all’aperto, senonché l’auto veniva fotografata e l’immagine pubblicata su Facebook con un commento sarcastico circa l’uso personale dell’auto aziendale da parte del personale dell’Ente. Tale post veniva aspramente commentato da molti cittadini con conseguente detrimento dell’Immagine dell’Ente. La Corte, pur ritenendo disciplinarmente rilevante il fatto, ha però giudicato illegittimo il licenziamento in quanto la fattispecie (abbandono del posto di lavoro per i minuti necessari ad effettuare la spesa) rientrerebbe nell’ambito di una fattispecie punita dal Contratto Collettivo con una sanzione conservativa.

Altro caso, è quello del Tribunale di Taranto che, con ordinanza del 26 luglio 2021 , ha giudicato il licenziamento di un dipendente di una nota acciaieria Tarantina che aveva pubblicato un post nel quale, facendo riferimento all’attività imprenditoriale, dichiarava: “… in nome del profitto la vita dei Bambini tarantini non conta …. Assassini “. Anche in tale occasione, trattandosi di post pubblico, il Giudice ha risolto la problematica della riservatezza del dipendente a suo sfavore, ma ha ritenuto comunque illegittimo il provvedimento disciplinare in quanto, alla luce del contesto in cui il post era scritto, si poteva comprendere che la frase offensiva riguardava un periodo storico in cui l’acciaieria era di proprietà di soggetti giuridici diversi da quelli che avevano comunicato il licenziamento.

Il Tribunale di Cosenza, con Sentenza del 13 luglio 2022, n. 1240 , ha giudicato legittimo il licenziamento di un’autista di Bus di linea che, mentre era alla guida dell’automezzo di servizio, postava commenti su Facebook e si relazionava con altri utenti esprimendo giudizi in merito ad articoli pubblicati su diversi quotidiani.

Ha destato poi un certo scalpore la sentenza di Cassazione sez. lav. 27 maggio 2015, n. 10955 che concerne il caso di un datore di lavoro il quale, avendo il sospetto che un proprio dipendente mentre era in servizio si distraeva lasciando anche incustodita la postazione di lavoro per intrattenere relazioni su Facebook, decideva di creare un profilo «civetta» e, spacciandosi per un’avvenente ragazza, chiedeva l’amicizia al dipendente che cascava nella trappola avviando una fitta chat con la sedicente ragazza. Venivano, per questa via, confermati i sospetti del datore di lavoro e confermata la legittimità del licenziamento. La sentenza in questione è stata criticata da più fronti in quanto, creare un profilo fake costituisce una indebita intrusione nella sfera giuridica di riservatezza e privacy del lavoratore che avrebbe potuto spingere verso una conclusione diversa, ossia la illegittimità delle prove acquisite con conseguente illegittimità del licenziamento che, su siffatte prove, si basava.

Non a caso, sulla questione della legittima acquisizione della prova si è aperto un dibattito giurisprudenziale non ancora chiuso, avente proprio ad oggetto le chat riservate a una cerchia ristretta di persone. Ci si è chiesto se tali chat possano essere utilizzate quale mezzo per provare in giudizio condotte illegittime, come ad esempio, dichiarazioni diffamatorie.

Una parte della giurisprudenza ha sostenuto che le chat sono coperte dal segreto sulla corrispondenza e dunque inutilizzabili da chi non è destinatario del messaggio, si veda, in tal senso, la Sentenza della Corte di Cassazione, n. 21965 del 2018 che riguardava il licenziamento comunicato a un dipendente che aveva apostrofato, in una chat privata all’interno di un Gruppo Facebook, l’Amministratore Delegato con epiteti senz’altro diffamatori e insultanti.

Ebbene, pur a fronte di tali gravi affermazioni la Corte di Cassazione ha ritenuto che debba prevalere l’esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni laddove i messaggi siano scambiati all’interno di chat private e dunque anche in un gruppo Facebook specie se i contenuti sono protetti da password. Per questa via la Corte è giunta alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento. Precisa poi la Cassazione che, essendo i messaggi rivolti a un gruppo determinato di persone e non diffusi a una “moltitudine indistinta” di soggetti non vi sarebbero i requisiti della diffamazione.

Di senso contrario invece la più recente sentenza di Cass. civ. sez. lav. 31 maggio 2021, n.15161 , secondo cui è legittimo il licenziamento del dipendente che aveva rivolto frasi offensive nei confronti dei vertici aziendali nel contesto di una mailing list” sindacale.

Secondo la Corte era dirimente per stabilire la legittima acquisizione il rilievo che l’Azienda non si era in alcun modo attivata per raccogliere i dati dal momento che uno dei destinatari aveva inoltrato i messaggi direttamente all’Azienda, il che rende, ad avviso della citata sentenza, legittima l’acquisizione dell’informazione.

Sfumatura diversa del medesimo problema (valore probatorio delle chat) concerne il caso in cui la chat del social costituisce strumento di lavoro aziendale, e ciò si verifica, ad esempio, allorquando l’organizzazione del lavoro prevede la possibilità di utilizzare le chat dei social per comunicazioni di lavoro all’interno dell’azienda.

In questo caso, la Cassazione, con sentenza del 22 settembre 2021, n. 25731 , ha da ultimo, affermato il lineare principio secondo cui a tale fattispecie di controllo si applica l’art. 4 della L. 300 del 1970 e quindi le prove possono essere legittimamente raccolte e utilizzate solo a condizione che i dipendenti siano stati resi preventivamente edotti, anche nel rispetto della normativa in materia di privacy, delle modalità d’uso degli strumenti, della potenziale effettuazione dei controlli e delle modalità con cui i controlli vengono effettuati.

L’esame dei precedenti giurisprudenziali sopra descritti è utile occasione per trarre alcune considerazioni su un utilizzo adeguato e professionale dei social che possono essere così sintetizzate:

1. Evitare fenomeni di confusione tra ruolo aziendale e dichiarazioni personali , con ciò avendo cura di specificare se si parla a nome personale o nello svolgimento di funzioni aziendali;

2. Quando il Social è utilizzato per ragioni di servizio , adottare un linguaggio neutro e professionale in quanto ciò che si scrive viene attribuito in via diretta anche all’azienda;

3. Quando il Social è utilizzato per ragioni di servizio , avere cura che vi sia distinzione tra il profilo personale e quello professionale

4. Evitare di trattare pubblicamente tematiche che potrebbero impattare, anche indirettamente sull’immagine dell’Azienda (ad. Es. se sono dipendente di un Istituto di Credito evito di commentare notizie che riguardano il mio datore di lavoro, a meno che ciò non mi sia espressamente richiesto);

5. Evitare la divulgazione di informazioni anche solo potenzialmente riservate e/o confidenziali;

6. Rappresentare sempre i fatti in modo continente e veritiero;

7. Utilizzare strumenti che limitano l’accesso al post a una cerchia definita di persone con ciò preservandone la riservatezza.

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*A cura dell’Avv. Pasquale Zumbo dello Studio Legale Daverio & Florio

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