Civile

Depenalizzazione, strada in salita per le sezioni Unite

di Giuseppe Buffone

Esiste una “soluzione salvifica” per la depenalizzazione fondata sulla trasformazione del reato in illecito civile? Impegnatie nella risposta a questo quesito saranno prossimamente le sezioni Unite della Cassazione - che dopo il rinvio voluto dalla sezione V penale con l’ordinanza 9-23 febbraio 2016 n. 7125, in assenza di un qualsiasi contrasto giurisprudenziale - dovranno risolvere i delicati nodi ermeneutici, generati dall’innesto del decreto legislativo 15 gennaio 2016 n. 7, in vigore per la prima dal 6 febbraio scorso. Ebbene, nell’attesa del giudicato delle sezioni Unite la soluzione “salvifica” potrebbe essere quella di interpretare le norme del Dlgs n. 7 del 2016 nel senso che il giudice penale, in caso di degradazione della violazione penale in illecito civile, resta competente per il risarcimento del danno e la sanzione civile da applicare contestualmente, ma la tesi non è condivisa dall'Ufficio del massimario della Cassazione.

Una lacuna che condiziona gli operatori

È il caso, però, di andare con ordine quando si parla di una disciplina già interessata da un processo di legificazione che appare «un coacervo lacunoso e contraddittorio». La Suprema corte si posto un problema molto sentito in queste settimane dagli operatori del diritto, cioè il problema relativo all’impatto del fenomeno abrogativo portato dal Dlgs n. 7 del 2016 sui processi pendenti, con particolare riguardo alle statuizioni civili di condanna pronunciate a favore della parte offesa, costituitasi parte civile.

I due casi affrontati dalla sezioni Penali

I giudici della Suprema corte hanno emesso due sentenze , la 7124 e la 7125, che riguardano due vicende con un medesimo denominatore comune, cioè la verifica dell'impatto del Dlgs n. 7 del 2016 sui processi pendenti. Entrambi i reati di cui si sono occupati i giudici di legittimità (ingiuria e falsità in scrittura privata) sono stati infatti abrogati e sostituiti da un illecito civile sanzionato con una somma di denaro.

Il Dlgs 7/2016 e le sentenze non irrevocabili di condanna

Nella sentenza n. 7125 del 2016, la Suprema corte premette che la questione dell'impatto sulle statuizioni civili dell'abrogazione della norma incriminatrice è stata ripetutamente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità con specifico riguardo all'ipotesi della revoca della sentenza di condanna divenuta definitiva. E richiama, dunque, gli argomenti già spesi al riguardo, da ultimo nella cennata decisione n. 7124 del 2016.

Appura, tuttavia, come nel caso sub iudice questi principi non possano essere applicati tout court, poiché si tratta di una fattispecie in cu i l'abolitio criminis è intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (ostandovi il combinato disposto di cui agli articoli 185 del Cp e 74 e 538 del Cpp).

Esclusa la possibilità di far governo delle regole utilizzate nella sentenza n. 7124 del 2016, il collegio della Suprema corte osserva che, venendo meno la possibilità di una pronuncia definitiva di condanna agli effetti penali perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, verrebbe meno anche il primo presupposto dell'obbligazione restitutoria o risarcitoria per cui è concesso l'esercizio nel processo penale dell'azione civile, con la conseguenza che, nel giudizio di legittimità, dovrebbero essere revocate le statuizioni civili adottate in quelli di merito (ciò in conseguenza dell'abrogatio cum abolitio).

I giudici di Cassazione, al cospetto di questa soluzione, non possono esimersi «dall'evidenziare come i contenuti del Dlgs 7/2016, così come quelli del “parallelo” del Dlgs n. 8/2016, rivelino anche la possibilità di altre ipotesi, profilandosi così la concreta possibilità di contrasti interpretativi in grado di generare sperequazioni applicative».

Premettono che il Dlgs n. 7 del 2016, da una prima lettura, realizza, come il Dlgs n. 8 del 2016, un intervento di depenalizzazione; lo rivelano diversi elementi:
• la configurazione di fattispecie sanzionatorie specificamente tipizzate ricalcando il contenuto delle norme penali abrogate;
• l'autonomia delle sanzioni rispetto al risarcimento del danno e la destinazione erariale dei loro proventi.

Al lume di questo rilievo, Dlgs n. 7 e Dlgs. n. 8 sono risvolti applicativi di un medesimo istituto (la depenalizzazione) seppur con metodologie trasformative diverse (il Dlgs n. 7 degrada il reato in illecito civile; il Dlgs n. 8 patrimonializza l'illecito penale mediante trasformazione in illecito amministrativo).

Stando così le cose, alla Suprema corte pare che l'opera legislativa, così considerata nel suo complesso, presenti delle aporie: infatti, entrambi i decreti contengono una disciplina transitoria (rispettivamente contenuta nell'articolo 12 del 7/2016 e nell'articolo 8 del Dlgs 8/2016) il cui tratto comune è costituito dall'applicabilità tanto delle sanzioni amministrative relative agli illeciti depenalizzati, quanto di quelle pecuniarie civili, anche ai fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore dei due decreti, salvo che in relazione ai medesimi non sia già intervenuta una pronuncia definitiva all'esito del procedimento penale, della quale in entrambi i testi normativi è prevista la revoca a cura del giudice dell'esecuzione attraverso la procedura semplificata di cui al quarto comma dell'articolo 667 del Cpp. Ciò nondimeno, solo per il decreto 8/2016 (e non anche per il decreto 7/2016) è prevista una ulteriore disposizione di diritto transitorio (articolo 9) al fine di disciplinare, nell'ipotesi che la depenalizzazione sia sopravvenuta nel corso del procedimento penale, la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa competente per l'irrogazione delle sanzioni amministrative e la sorte delle statuizioni civili già adottate.

Esiste la soluzione “salvifica” ?

I commenti sino a ora intervenuti in dottrina, escludono, con riguardo all'illecito penale trasformato in illecito civile, la possibilità di applicare analogicamente l'articolo 578 del Cpc (e, dunque, anche l'articolo 9 del Dlgs 8/2016), escludendo che il giudice dell'impugnazione debba decidere agli effetti civili (si veda Ianni, La riforma sulla depenalizzazione in www.ilcaso.it, 2016).


Decisione del giudice penale
agli effetti civili: verso la Corte costituzionale?

Sulla questione, si registra una presa di posizione analoga, anche del Massimario della Suprema corte di cassazione. L'Ufficio affronta, in particolare, l'interrogativo relativo alla possibilità per il giudice penale, contestualmente alla sentenza di proscioglimento perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, di provvedere sul risarcimento del danno reclamato dall'eventuale parte civile e, congiuntamente, sulle parallele nuove sanzioni pecuniarie civili; «facoltà che risponderebbe al fine di non costringere la parte civile a coltivare una nuova defatigante azione davanti al giudice civile, con quanto ne consegue anche in termini di pericolo di prescrizione dell'illecito civile medesimo».

La posizione del “Massimario”

Secondo il Massimario, «l'assenza di una disposizione transitoria analoga a quella indicata dall'art. 9, comma 3, del decreto legislativo n. 8 del 2016 (…) sembrerebbe far propendere per la opposta soluzione secondo cui il giudice deve limitarsi alle statuizioni penali, essendo onere della parte offesa (anche ove costituita come parte civile nel processo penale così definito), di promuovere eventuale azione davanti al giudice civile, competente anche per l'irrogazione delle sanzioni pecuniarie civili; la parallela regola individuata per la depenalizzazione pare, infatti, costituire un'eccezione, nominativamente prevista (al pari dell'art. 578 cod. proc. pen.), alla disciplina generale di cui all'art. 538 cod. proc. pen. - secondo cui il giudice penale decide anche sulla responsabilità civile solo quando pronuncia sentenza di condanna - e come tale, dunque, non suscettibile di applicazione analogica» (Corte di cassazione, ufficio del Massimario, relazione n. III/01/2016).

Che la parte civile possa essere travolta dalle conseguenze fisiologiche dello sviluppo processuale penale, è principio acquisito: l'inserimento dell'azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall'esercizio dell'azione civile nel processo civile e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all'azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all'accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi (Corte costituzionale, sentenza n. 353 del 1994; in senso analogo, sentenze n. 217 del 2009 e n. 443 del 1990; ordinanze n. 424 del 1998 e n. 185 del 1994). Di conseguenza, una volta che il danneggiato, «previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli», scelga di esercitare l'azione civile nel processo penale, anziché nella sede propria, «non è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono» (Corte costituzionale, sentenza n. 94 del 1996, ordinanza n. 424 del 1998).

Una soluzione “alessandrina”
Ciò nondimeno, nel caso di specie, appare difficilmente comprensibile - in punto di razionalità - perché una medesima parte danneggiata sia trattata ora in un modo, ora in un altro, sulla scorta di un medesimo istituto (depenalizzazione), in ragione del solo titolo di reato: quanto a dire che sembra predicabile un vulnus all'articolo 3 del Costituzione del Dlgs 7/2016 nella parte in cui non prevede, anche per l'illecito penale trasformato in illecito civile, una norma analoga a quella di cui all'articolo 9 del Dlgs n. 8 del 2016. Questa conclusione, però, può condurre a risultati pratico-applicativi altrettanto irrazionali.
La trasformazione del reato in illecito amministrativo, per le violazioni anteriori all'entrata in vigore del Dlgs 8/2016 obbliga l'autorità giudiziaria a trasmettere gli atti alla pubblica amministrazione competente per la sanzione amministrativa da applicare.


La condotta del reo, dunque, resta sanzionabile a mezzo di un procedimento ex officio che non abbisogna di alcun impulso. Che effetti avrebbe, allora, questa soluzione negli illeciti trasformati dal Dlgs n. 7 del 2016?

Posto che la sanzione civile presuppone l'impulso del danneggiato, l'effetto sarebbe quello che, ottenuto il ristoro monetario in sede penale, nessun soggetto instaurerebbe il giudizio risarcitorio civile dando così modo al giudice di irrogare la sanzione, con conseguente venir meno di ogni effetto sanzionatorio per la condotta illecita posta in essere dal danneggiante.
Soluzione salvifica potrebbe allora essere quella auspicata da Cassazione 7125/2016 (ma obliterata dal Massimario) ossia interpretare le norme del Dlgs 7/2016 nel senso che il giudice penale, in caso di degradazione dell'illecito penale in illecito civile, resta competente per il risarcimento del danno e la sanzione civile (da applicare contestualmente).
Il nodo “gordiano” passa alle sezioni Unite: mantenendo il riferimento metaforico, è auspicabile una soluzione «alessandrina».

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