Penale

Depistaggio, per la condanna non è sufficiente la qualifica di pubblico ufficiale

di Giovanni Negri

La Cassazione stringe sulle letture espansive del reato di depistaggio. Per la Sesta sezione penale, sentenza n. 34271, deve sempre esistere sul piano oggettivo un collegamento funzionale tra il fatto realizzato e il pubblico ufficio o servizio di cui l’imputato è investito e, su quello soggettivo, la consapevolezza che la condotta manipolatrice è in grado di incidere con effetto inquinante su una indagine in corso.

La Corte ha così ritenuto corretta la decisione con la quale si era ritenuto che, a carico di un ufficiale di Polizia penitenziaria, ci fossero gravi indizi di colpevolezza, osservando che l’ufficiale, sebbene non fosse stato incaricato dall’autorità giudiziaria di specifici accertamenti rispetto a reati oggetto di denuncia, verificatisi in carcere, era a conoscenza della loro commissione e aveva posto in essere la condotta manipolatrice sfruttando la sua condizione soggettiva e con finalità inquinante.

Il reato, ricorda la sentenza, è stato introdotto nel 2016 dopo un lavoro parlamentare assai laborioso. Il nuovo articolo 375 del Codice penale colma una lacuna del sistema di tutela dell’attività giudiziaria, che, nel tempo, aveva rivelato una inadeguata capacità di reazione di fronte a forme di aggressioni compiute da soggetti qualificati a cui è affidata l’applicazione della legge.

È stato dunque allargato il sistema delle incriminazioni attraverso l’inserimento di nuove fattispecie indirizzate a reprimere inquinamenti procedimentali «ciò spiega l’affermazione secondo cui la fattispecie di depistaggio tutela il corretto funzionamento della giustizia e del processo, esposto ai rischi di compromissione derivanti dalle condotte tipiche di soggetti qualificati». Tuttavia, Sin dall’entrata in vigore della disposizione è stato segnalato in senso problematico come nella formulazione normativa non ci siano indici rivelatori della necessità di una connessione tra il pubblico ufficiale e la condotta illecita.

«Si è posta dunque - si interroga la Cassazione - la questione relativa a se sia possibile che la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio costituisca un elemento essenziale del reato “in via di fatto”, a prescindere dalla connessione tra tale qualità e le attività a cui si correla l’illecito attribuito, e possa considerarsi rientrante negli elementi tipici della fattispecie, anche in situazioni di totale accidentalità della stessa rispetto all’oggetto dell’indagine».

Tra gli elementi che hanno fatto propendere alcune interpretazioni per la tesi estensiva, facendo assumere rilevanza anche alle condotte di totale accidentalità rispetto all’oggetto dell’indagine c’è il dato normativo che prevede l’applicazione della pena anche quando il pubblico ufficiale è cessato dal servizio.

Una tesi che non convince la Cassazione. La sentenza così valorizza innanzitutto l’elevata sanzione prevista, nell’ipotesi base massimo di pena fissato a 8 anni. Elemento che suggerisce di collegare la condotta a un dovere che riguarda direttamente la funzione, il cui svolgimento vede una convergenza di interessi tra pubblica amministrazione rappresentata e dipendente chiamato a svolgerne le funzioni.

Gli stessi lavori parlamentari con l’alternanza tra la qualificazione del reato come proprio o comune deve essere ritenuta, per la Corte sintomo della volontà legislativa di colpire solo soggetti che si trovano in un rapporto di connessione con il bene protetto. E questo anche alla luce della tenuta costituzionale di una pena che altrimenti apparirebbe sproporzionata.

Nel caso esaminato, se è vero che l’ufficiale di Polizia non era stato incaricato di alcuna attività investigativa, tuttavia per la funzione di Comandante del reparto di polizia penitenziaria era a conoscenza dei reati denunciati e dunque aveva sfruttato la sua posizione con la deliberata intenzione di inquinare il procedimento giudiziario.

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