Lavoro

Dipendente non vaccinato; prima dell'aspettativa occorre valutare un impiego alternativo

Il caso è di particolare interesse in quanto pone in rilievo il tema dell'assolvimento da parte del datore di lavoro del c.d. obbligo di repechage per quei lavoratori sospesi per non aver aderito alla campagna vaccinale contro il COVID-19.

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di Enrico Vella *

Il 15 settembre scorso, il Tribunale di Milano è intervenuto nel dibattito afferente alla mancata vaccinazione nell'ambito del rapporto di lavoro del personale operante nelle RSA.

Il caso è di particolare interesse in quanto pone in rilievo il tema dell'assolvimento da parte del datore di lavoro del c.d. obbligo di repechage per quei lavoratori sospesi per non aver aderito alla campagna vaccinale contro il COVID-19.

Nello specifico, il Giudice del Lavoro è stato chiamato a valutare il caso di una lavoratrice, dipendente di una Cooperativa Sociale ed operante in qualità di Assistente Socio Assistenziale presso una RSA, che contestava la legittimità del provvedimento di messa in aspettativa senza retribuzione.

La vicenda prende avvio quando il datore di lavoro, nel febbraio 2021, esperita la procedura di legge e rilevato il rifiuto della lavoratrice alla vaccinazione, in ottemperanza agli obblighi di cui all'art. 2087 c.c. e "per la migliore tutela dei propri collaboratori, degli ospiti e di tutti gli utenti e la vaccinazione anti-Covid-19 in capo a tutti li operatori", decideva di porre in aspettativa non retribuita la dipendente, rifiutando così la prestazione e non corrispondendo la relativa retribuzione.

Tale provvedimento veniva giustificato dal fatto che, a mente dell'art. 2087 c.c., l'imprenditore, in quanto garante della salute fisica dei propri dipendenti, ha l'obbligo di adottare quelle misure di prevenzione e protezione che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Tale decisione aziendale è stata pienamente avallata dal Giudice di prime cure, il quale, appunto, ha confermato che. "Laddove l'adempimento dei doveri di protezione non si limiti all'impartimento di prescrizioni di condotta (ad es. utilizzo della mascherina) o all'adeguamento dell'ambiente di lavoro (ad es. installazione di pannelli protettivi in plexiglass), ma si spinga sino al punto di sospendere unilateralmente la prestazione di un dipendente, la cui perdurante frequentazione dei locali aziendali sia ritenuta incompatibile con la specifica organizzazione del lavoro e la salubrità e sicurezza dell'ambiente lavorativo, non potrà che farsi applicazione dei principi generali che regolano la fattispecie, come precisati dalla diuturna applicazione giurisprudenziale."

Quindi, in un ambito sociosanitario, il lavoratore (privato) non vaccinato, poiché rappresenta un veicolo di diffusione del contagio maggiore rispetto al lavoratore vaccinato ed in quanto fonte di maggiore rischio per la salute, deve necessariamente essere allontanato.

Tuttavia, il Tribunale di Milano ha precisato che tale provvedimento deve essere adeguatamente valutato e ponderato in quanto rappresenta una extrema ratio e che può e deve essere adottato solo dopo aver verificato le concrete possibilità di ricollocare il dipendente in posizioni lavorative alternative.

Così facendo, sotto questo particolare profilo, l'organo giudicante si spinge dunque ad equiparare la sospensione per impossibilità temporanea della prestazione lavorativa al licenziamento per impossibilità definitiva della stessa, onerando il datore di lavoro del c.d. obbligo di repechage, ossia di dare la prova dell'impossibilità di utilizzare il lavoratore in altra posizione di lavoro o in altre mansioni equivalenti o inferiori.

Il datore di lavoro deve verificare l'esistenza in azienda di posizioni lavorative alternative, astrattamente assegnabili al lavoratore, in modo da preservare la condizione occupazionale e retributiva del dipendente, ferma la compatibilità con la tutela della salubrità dell'ambiente di lavoro.

Solo quando l'assegnazione a mansioni diverse non è possibile, per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento.

Proprio sulla base di questo principio, il ricorso della dipendente veniva accolto ed il datore di lavoro condannato a corrispondere dalla data di sospensione la dovuta retribuzione.

Tale decisione che, come si diceva, afferisce all'ambito lavorativo socio-sanitario, offre sicuramente spunti di riflessione in vista dell'entrata in vigore della normativa che introduce l'obbligo per tutti i lavoratori di possedere e di esibire su richiesta la Certificazione Verde - c.d. Green Pass, pena la sospensione immediata ed incondizionata dalla prestazione e dalla retribuzione.

Una simile sospensione, infatti, sembra palesarsi come soluzione più rigorosa e, salvi futuri interventi giurisprudenziali o normativi, sembra escludere l'obbligo del datore di lavoro di valutare soluzioni lavorative alternative che possano consentire la normale prosecuzione del rapporto di lavoro.

*A cura di Enrico Vella – Studio Trifirò & Partners Avvocati

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