Lavoro

Discriminazione indiretta se per la promozione il part time conta meno

di Giampiero Falasca

L’attribuzione di un punteggio proporzionato al regime orario (part time o tempo pieno) ai fini di una promozione può costituire una forma di discriminazione indiretta se, nella sua concreta applicazione, colpisce solo una categoria di dipendenti (quelle di sesso femminile): la Corte di cassazione, con questo principio (sentenza 21801/2021 depositata ieri), si allinea agli orientamenti della Corte di giustizia europea in tema di discriminazione sui luoghi di lavoro.

La questione riguarda il criterio adottato dall’agenzia delle Entrate in occasione di un concorso interno bandito per attribuire una progressione economica; nel bando di concorso è stato previsto un punteggio relativo alla “esperienza di servizio”, riproporzionato per i lavoratori part time in ragione del minore orario di lavoro svolto.

Una dipendente ha impugnato tale regola, sostenendo che la sua applicazione concreta produceva una discriminazione nei confronti delle lavoratrici donne, che utilizzavano in larga misura l’orario a tempo parziale.

Le Corti di merito si erano espresse in maniera differente sulla vicenda – il Tribunale aveva accertata la discriminazione, la Corte d’appello l’aveva esclusa– richiedendo l’intervento della Suprema corte, che ha affermato un principio chiaro: l’utilizzo di un criterio oggettivo e apparentemente neutro come il punteggio legato all’anzianità di servizio, riparametrato in relazione all’orario di lavoro, può risultare illegittimo se in concreto penalizza la maggioranza delle donne.

Per arrivare a questa conclusione, la sentenza critica il metodo adottato dalla Corte d’appello per valutare la sussistenza di un trattamento discriminatorio. Secondo i giudici di legittimità, la verifica non andava fatta sul «trattamento» applicato (che era certamente corretto, sul piano formale) ma avrebbe dovuto estendersi all’ «effetto» discriminatorio che esso avrebbe prodotto, in coerenza con le norme interne (Dlgs 198/2006) e con la giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Questa verifica, precisa la Cassazione, avrebbe dovuto essere compiuta verificando quanti dipendenti di sesso maschile risultavano danneggiati dall’applicazione del criterio dell’anzianità riproporzionata (in quanto lavoratori part time) e quante dipendenti di sesso femminile erano colpite dall’applicazione del medesimo criterio. Se da questo confronto fosse emersa una percentuale significativamente prevalente di donne, i giudici d’appello avrebbero dovuto accertare la sussistenza di un effetto discriminatorio: per questo motivo, la precedente decisione viene annullata, con rinvio ad altra Corte, per compiere tale indagine.

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