Il divieto di discriminazione nel rinnovo dei contratti a termine: focus sulla tutela delle lavoratrici in gravidanza
Il datore è tenuto a verificare l’assenza di elementi oggettivi a sostegno della mancata proroga nei confronti della lavoratrice in stato di gravidanza, specie nel caso in cui vi siano altri lavoratori (in situazione contrattuale analoga) ai quali è garantita la prosecuzione del rapporto di lavoro
Il divieto, per il datore di lavoro, di compiere atti o comportamenti discriminatori è un principio cardine dell’ordinamento giuslavoristico; dietro questo divieto, si celano significative implicazioni per la prassi dei rapporti di lavoro, derivanti dalla concreta applicazione giurisprudenziale, che assumono sempre maggiore importanza nell’orientare le scelte datoriali.
In particolare, un orientamento giurisprudenziale di respiro europeo, che sta assumendo sempre più rilievo anche nei tribunali italiani, considera il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a tempo determinato, nei confronti di una lavoratrice in stato di gravidanza, alla stregua di un rifiuto all’assunzione e, pertanto, soggetto ai generali principi in materia di discriminazione sul lavoro.
È quindi inevitabile considerare l’impatto di tali pronunce nelle valutazioni che i datori di lavoro si trovano a compiere, quotidianamente, nell’esercizio della loro attività di impresa.
Brevi cenni al contesto normativo
Come noto, i divieti di discriminazione trovano applicazione in ogni fase del rapporto di lavoro: in fase preassuntiva, nel corso del rapporto di lavoro e, infine, in caso di risoluzione dello stesso.
Se da un lato, infatti, potremmo affermare che la scelta di quali lavoratori (non) assumere (o rinnovare) rientri tra le valutazioni discrezionali dell’imprenditore, dall’altro va osservato che il datore di lavoro è tenuto a non porre a fondamento della propria decisione criteri che siano direttamente o indirettamente discriminatori, dando rilevanza a fatti, elementi o opinioni privi di attinenza rispetto alle mansioni oggetto del rapporto.
In proposito, è consolidato il principio di matrice europea che annovera, tra le ipotesi di discriminazione, anche le condotte che sianoidonee a impedire - o rendere maggiormente difficoltoso - l’accesso all’occupazione a determinati soggetti (Corte di Giustizia, causa C-81/12; Corte di Giustizia, causa C-54/07).
Il fulcro dei principi antidiscriminatori è la particolare attenzione accordata a un determinato soggetto in virtù della presenza di un c.d. “fattore protetto”; muovendo da questi presupposti, va ad esempio considerata la particolare fragilità delle lavoratrici, con riferimento alle quali, oltre alla semplice appartenenza al genere femminile, costituiscono un fattore protetto anche alcuni criteri aggiuntivi, quali lo stato di gravidanza.
L’orientamento giurisprudenziale in materia di mancato rinnovo del contratto a termine
Muovendo da tali premesse, l’applicazione del divieto di discriminazione trova spazio anche con riferimento al mancato rinnovo del contratto a termine, in ragione dello stato di gravidanza della lavoratrice interessata.
La questione, come anticipato, non è certamente nuova per la giurisprudenza, anche europea.
La Corte di Giustizia Europea, con la decisione C-438/99, ha infatti ritenuto che il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a termine, motivato dallo stato di gravidanza della lavoratrice, costituisce, alla stregua di un rifiuto all’assunzione, una discriminazione diretta basata sul sesso, incompatibile con il principio della parità di trattamento, anche per quanto riguarda l’accesso al lavoro, derivante dal diritto dell’Unione.
Più recentemente anche la giurisprudenza italiana, con la sentenza n. 5476 del 2021 della Corte di Cassazione, si è conformata ai principi eurounitari.
La Suprema Corte ha precisato che il mancato rinnovo di un contratto a termine nei confronti di una lavoratrice in stato di gravidanza “ben può integrare una discriminazione basata sul sesso” e ha ritenuto “significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza” tanto la parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori, quanto le esigenze di rinnovo da parte della datrice di lavoro “manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi”.
Si deve, peraltro, considerare che tale orientamento sembra ormai essersi ampiamente consolidato anche nella giurisprudenza di merito che, anche nei casi di somministrazione di lavoro a tempo determinato, si è pienamente allineata alla giurisprudenza eurounitaria e di legittimità (Trib. Roma, Sez. Lav. 22/04/2021, n. 6996, Trib. Milano, Sez. Lav. 12/06/2023, n. 16445).
Le implicazioni concrete di tale orientamento
Gli effetti concreti di tale orientamento, ben lontano dal rappresentare un “caso di scuola”, sono di non banale rilevanza.
È infatti inevitabile per i datori di lavoro, anche nell’esercizio di un potere di per sé discrezionale come la decisione di prorogare o meno un contratto a termine, interrogarsi sulla potenziale portata discriminatoria di una tale decisione.
In concreto, il datore di lavoro, a conoscenza dello stato di gravidanza della lavoratrice, è tenuto a verificare l’assenza di elementi oggettivi a sostegno della mancata proroga/rinnovo nei confronti della lavoratrice, specie nel caso in cui vi sia la presenza di altri lavoratori in una situazione contrattuale analoga, ai quali sia invece stata garantita la prosecuzione del rapporto di lavoro.
I potenziali effetti collaterali risultano, inoltre, ancora più complessi in virtù dell’attenuazione del regime probatorio, per chi rivendica comportamenti discriminatori da parte del datore di lavoro.
Spetta infatti alla parte datoriale, chiamata in giudizio, l’onere di dare prova di circostanze inequivoche, idonee a escludere la natura discriminatoria della condotta “in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio che si fosse trovato nella stessa posizione” e a giustificare la differenza di trattamento, dimostrando, in altri termini, che “la differenza di trattamento si basi su dati oggettivi, estranei al motivo che forma oggetto del divieto” (Trib. Roma, Sez. Lav. 22/04/2021, n. 6996).
Conclusioni
È infine legittimo interrogarsi su quali siano le conseguenze per le aziende, nel caso in cui il mancato rinnovo di un contratto a termine venga ritenuto discriminatorio. In base ai precedenti di merito rinvenibili sino ad oggi sul punto, sembra possibile escludere il rischio della ricostituzione del rapporto di lavoro e ritenere che le conseguenze per il datore di lavoro siano esclusivamente di natura risarcitoria. Tuttavia, a causa delle poche pronunce disponibili, risulta ancora complesso individuare un criterio effettivo per determinare l’ammontare del risarcimento.
In conclusione, è importante rimarcare la necessità di prestare ogni più opportuna cautela in tutte quelle situazioni in cui, a fronte del mancato rinnovo del contratto a termine di un lavoratore o di una lavoratrice che si trovi in una condizione di particolare fragilità, vi sia la presenza di altri lavoratori che, al contrario, hanno beneficiato di un rinnovo o di una proroga. Infatti, in assenza di elementi idonei a dimostrare che la differenza di trattamento si basi su dati oggettivi, il rischio di incorrere in pratiche discriminatorie è elevato.
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*Pietro Scianna (Partner, Head of Employment & Labour) e Sofia Bitella (Junior Associate), Osborne Clarke